Un piano Marshall per Egitto e Tunisia, oltre alla possibilità che questo possa poi essere esteso anche ad altri Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa in futuro sono le sole, per quanto sostanziali, novità annunciate ieri da Barack Obama nel suo atteso discorso volto a illustrare al mondo la nuova strategia degli Stati Uniti per le due aree travolte dall’ondata delle rivolte popolari.
“Abbiamo chiesto alla Banca mondiale di presentare un piano al G8 della prossima settimana per rilanciare l’economia della Tunisia e dell’Egitto (...) al nuovo governo democratico del Cairo cancelleremo fino a un miliardo e gli daremo un miliardo di crediti per rilanciare l’imprenditoria. E stiamo inoltre lavorando con il Congresso perché istituisca un fondo per rilanciare gli investimenti in Tunisia ed Egitto con una struttura da due miliardi di dollari”, sono state le parole del presidente Usa che ha inoltre invitato anche altri Paesi ad affiancarsi a Washington in questa operazione. Un’operazione volta a sfruttare a proprio vantaggio l’effetto delle rivolte mettendo le mani sui quei Paesi che fino a poco tempo fa si opponevano all’avanzata nordamericana tanto in nord Africa quanto nella penisola araba. Obama ha infatti annunciato che gli Stati Uniti collaboreranno con tutte quelle entità che hanno voglia di “cambiamento e di riforme” non necessariamente con i governi. “Due dittatori sono caduti, altri seguiranno”, ha affermato ancora lasciando intendere, neanche troppo velatamente, che i prossimi a seguire Mubarak e Ben Ali, una volta grandi alleati di Washington ora scaricati come fazzoletti usati nello sciacquone, saranno quasi certamente Muammar Gheddafi e il presidente siriano Bahsar al Assad. Il primo dato dal presidente Usa come ormai per spacciato, mentre al secondo ha ribadito le solite minacce “guidi il processo di riforme o lasci”. Riforme in parte già effettuate ma che il governo nordamericano si rifiuta, per convenienza, di riconoscere.
Il resto dell’atteso discorso invece non ha riservato alcuna novità, a cominciare dagli attacchi all’Iran, considerato anche da Obama il vero fomentatore delle proteste contro i governi alleati di Qatar e Bahrein che pure stanno reprimendo nel sangue le proteste legittime delle proprie popolazioni. L’inquilino della Casa Bianca ha quindi affrontato anche la questione palestinese e purtroppo, proprio come preannunciato dal vice segretario del dipartimento di Stato Usa in visita a Tel Aviv, ha dimostrato con le sue parole di aver ormai sposato ufficialmente e in toto la linea tracciata dal governo israeliano.
Obama ha infatti dichiarato che nessuna pace può essere imposta e ha quindi ribadito la necessità di una rapida ripresa dei negoziati diretti fra le parti, sostenendo ad ogni modo che non si potrà prescindere dal riconoscimento dell’esistenza d’Israele, che lui stesso ha definito“uno stato per gli ebrei”. Parole che puntano a mettere fine all’iniziativa di un riconoscimento unilaterale di uno Sato palestinese lanciata dal presidente dell’Anp Mahmud Abbas, nonostante lo stesso capo di Stato Usa avesse promesso al suo omologo il sostegno statunitense in caso di fallimento degli scorsi colloqui di pace. Come se non bastasse Obama ha inoltre sottolineato la necessità che il futuro Stato palestinese, che sembra non dover vedere mai la luce, dovrà necessariamente essere smilitarizzato per garantire ai vicini israeliani la sicurezza di cui hanno bisogno. A quanto pare quindi l’idea della Palestina che nascerà, se nascerà, di Washington è quella di un’enorme area dove confinare il popolo palestinese: in parole povere un’altra Striscia di Gaza.
di Matteo Bernabei
m.bernabei@rinascita.eu
Tratto da: Rinascita
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