E’ purtroppo ricorrente, su questo quotidiano, la triste constatazione del perdurare dello stato di sovranità limitata al quale l’Italia è stata condannata dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale.
In questi sessantasei anni di cattività atlantica si sono contati soltanto tre tentativi di recupero, almeno parziale, della dignità nazionale. Spezzati però tutti e tre di netto assieme ai loro artefici.
Ci riferiamo a Enrico Mattei e al consolidamento di una indipendenza energetica italiana dalle multinazionali del petrolio, a Aldo Moro e alla sua politica di amicizia e cooperazione economica con il mondo arabo e a Bettino Craxi con la sua politica mediterranea di sostegno ai palestinesi e di confronto-scontro con gli Usa.
Sappiamo tutti quale sia stata la loro fine.
E conosciamo bene in quale vicolo cieco - voluto dai “Regolatori”- oggi si trovi un’Italia priva di proprie fonti di energia e di conseguenza artigliata nel campo minato del debito pubblico e dell’usura della grande finanza e in quel “nuovo ordine internazionale” che ha imposto la svendita del nostro patrimonio pubblico, delle nostre industrie strategiche, a colpi di privatizzazioni e di “mercato unico globale”.
Lo abbiamo anche scritto: a volte, nei momenti più cupi di riflessione, ci sembra di agitare a vuoto moniti e inviti ad un minimo di decoro nazionale e sociale... perché ci sentiamo costretti nel ruolo inutile di un don Chisciotte della Mancia.
Naturalmente è a noi ben noto che possediamo soltanto delle armi spuntate, infinitesimali: la macchina da guerra che ci sovrasta è possente. Ma ci culliamo lo stesso nell’idea di servire comunque al futuro della nostra povera patria.
L’unica certezza che ancora ci sorregge è l’evidenza storica. Ogni parentesi del cammino umano - anche la più lunga - è destinata comunque a chiudersi.
Di là dal nostro ristretto guscio, ogni tanto, scorgiamo altre ombre che si dichiarano decise a mutare lo stato di prigionia del nostro popolo.
Gente che si presenta, di primo acchito, come incarnazione di potenziali Cola di Rienzo. Un uomo che, nel periodo più buio del fondamentalismo cristiano, riuscì comunque a lasciare in eredità una lieve impronta di libertà ai posteri.
Già. Cola di Rienzo.
Quel popolano che, ottenuto il potere, lottò contro i feudatari e l’insicurezza sociale, ripristinò il buongoverno e il culto della memoria di Roma e iniziò una politica estera, tra Avignone, Venezia, i Comuni e la corte imperiale. Abbagliato dagli elogi e tradito dai potenti fu però artefice del suo stesso declino: si proclamò cavaliere, usò le leggi a sua discrezione, si abbandonò al lusso, impose nuove gabelle, si alienò gli amici. E fu trascinato alla morte dal suo stesso popolo. Una fine tragica che non auguriamo certo, noi, a nessuno.
Ecco.
Di nuovi Cola di Rienzo, oggi, l’Italia non sa che farsene.
Occorre invece qualcuno dalla postura dritta, dal carattere forte e dalla mente gelida.
Che non navighi come una barca senza nocchiero, una volta a dritta e l’altra a manca. Che sappia affrontare la tempesta con una rotta precisa, quella del bene comune, anche a costo di perdere un po’ dell’equipaggio arruolato a suon di oro, di lusinghe, di promesse.
Dov’è, esiste, quest’uomo? Dov’è quella terra d’Italia nella quale può nascere chi sappia raddrizzare il nostro futuro?
Verrà, verrà.
Fiduciosi attendiamo che si volti pagina.
di: Ugo Gaudenzi
Tratto da: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=7960://
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