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venerdì 24 giugno 2011

Verso nuovi equilibri/squilibri


I disordini a orologeria che stanno mettendo alla prova la capacità gestionale del presidente Bashar Al Assad e dimostrando comunque, giorno dopo giorno, l'effettivo radicamento popolare del Baath suffragano inoppugnabilmente la tesi secondo cui il governo di Damasco sia entrato definitivamente nel mirino dei "soliti noti".

Bollata dagli Stati Uniti come "stato canaglia" in ragione dell'alleanza di ferro stretta con la Russia e minacciata costantemente da Israele in virtù della sua vicinanza con fazioni autonomiste invise a Tel Aviv come Hamas ed Hezbollah, la Siria si ritrova attualmente a fungere da scenario di un conflitto interno a bassa intensità in cui le forze dell'ordine comandate da Assad stanno avendo la meglio su oscure fazioni ostili che godono dell'appoggio incondizionato di famigerate emittenti arabe (Al Jazeera in primis) intente a sezionare manicheamente la realtà e a presentare i membri armati delle frange antigovernative come "dissidenti" da iscrivere nel novero dei "buoni" vessati e repressi mediante efferati "bagni di sangue" scatenati dalle forze armate comandate dai "cattivi" vertici del Baath.

Le solite Organizzazioni Non Governative, i bilanci di gran parte delle quali dipendono direttamente dai fondi erogati dal Congresso degli Stati Uniti o dalla Casa Bianca (e da altre nazioni occidentali), sono fortemente coinvolte nella maestosa opera propagandistica di distorsione della realtà ai fini strumentali di destabilizzazione del paese e gli organi di informazione occidentali prendono regolarmente per oro colato le versioni palesemente unilaterali dei fatti rese da ignoti "blogger" su social network di massa come Facebook e Twitter.

Dietro lo spesso sipario di menzogne colossali calato sulla vicenda si cela una realtà ben diversa, che vede una nomenklatura alawita tenere in pugno il potere in un paese formato da una costellazione di gruppi etnici e religiosi che evidentemente non vivono in armonica e felice compenetrazione, ma che appoggiano più o meno calorosamente il regime Baath, che a sua volta ha tenuto conto delle esigenze di tutti (cristiani, musulmani, drusi) e si è fatto garante della laicità dello Stato, ha affermato l'autonomia nazionale e ha funto da freno ("katechon") alle brame imperiali dei vicini (Israele) e dei loro storici mentori (Stati Uniti).

La tenuta di Assad ha visibilmente scompaginato i piani delle potenze occidentali, che sono corse ai ripari disponendo (misura adottata dall'Unione Europea) l'embargo sulla fornitura di armi e una serie di misure restrittive in ambito finanziario a carico di numerosi vertici del governo di Damasco. Occorre prestare grande attenzione a ciò che accadrà nell'arco delle prossime settimane in Siria, in quanto gli sviluppi relativi al complesso scenario del Vicino e Medio Oriente nel futuro prossimo dipenderanno in larga misura dalla piega che prenderanno gli eventi in Siria.

Al momento, l'alleanza con la Russia (confermata persino dall'ambiguo Dmitri Medvedev) pare sufficientemente solida per evitare che le attenzioni delle potenze occidentali verso la Siria assumano fattezze affini a quelle mostrate nei confronti della Libia. Il che significa che il governo di Damasco potrà godere di un ampio margine di manovra per reprimere efficacemente i disordini in tempi relativamente brevi. Se riuscirà ad avere la meglio sui rivoltosi, Assad uscirà indubbiamente rafforzato dalla bagarre.

Ciò ha evidentemente destato forti preoccupazioni a Washington e spinto gli Stati Uniti ad uscire definitivamente allo scoperto. Non a caso Hillary Clinton ha dichiarato che "Ogni giorno che passa la posizione del governo siriano diventa meno difendibile e le esigenze di cambiamento del popolo siriano non fanno altro che rafforzarsi".

Ancor più allarmato dal profilarsi della possibilità che il Baath siriano acquisti maggior peso politico è apparso il governo di Tel Aviv, il cui viceministro Ayub Al Qara ha ammesso di aver ricevuto cinque leaders delle frange antigovernative siriane promettendo loro appoggio incondizionato a livello internazionale.

E' probabile quindi che gli scontri si acuiranno (non a caso la responsabilità dell'attentato contro i soldati italiani in Libano è stata regolarmente fatta ricadere sulla Siria, mediante i soliti "avrebbe" e "si dice", esattamente come accadde nel 1982 in occasione dell'attentato che costò la vita a Bashir Gemayel e che provocò la spaventosa ritorsione israelo - falangista contro i profughi palestinesi stanziati a Chabra e Chatila) e la tensione subirà un ulteriore innalzamento, gli Stati Uniti chiameranno a raccolta i propri "alleati" per esercitare pressioni internazionali - specie in sede ONU - fortissime sulla Russia, che sarà chiamata a recidere definitivamente i nodi gordiani legati al dualismo Putin - Medvedev e scegliere, di conseguenza, la via da percorrere. Gli USA riconosceranno Medvedev come interlocutore, il quale non potrà tuttavia tagliar fuori dalla discussione un animale politico dello spessore di Vladimir Putin.

Se prevarrà la linea della fermezza la Siria non sarà oggetto di alcuna azione "umanitaria" e Assad rimarrà saldamente in sella, se verrà adottato un atteggiamento passivo affine a quello tenuto nei confronti della Libia l'orda dei "volenterosi" si sentirà legittimata ad alzare ancora una volta il tiro. La caduta di Assad preluderà al disfacimento del Baath, i cui equilibrismi hanno sventato lo spettro di una guerra civile intertribale affine a quella scoppiata in Iraq dopo il rovesciamento di Saddam Hussein (capo del Baath iracheno, non a caso). Nel caso in cui quest'ultima possibilità si concretizzi, i disordini si sposteranno verso est e coinvolgeranno quello che è un obiettivo primario per le amministrazioni USA e per i loro alleati israeliani, ovvero l'Iran.

Così come quello russo, anche il governo di Teheran appare lacerato da scontri al vertice tra la fazione dei laici al seguito del presidente laico Mahmoud Ahmadinejad e quella degli Ayatollah capeggiati dalla Guida Suprema Ali Khamenei, cosa che porta acqua al mulino di quanti ritengono che gli echi della rivoluzione colorata dell'estate 2009 non siano ancora svaniti e che il progetto di destabilizzazione dell'Iran sia tutt'ora in atto. Come è noto, il principale capo di accusa a carico dell'Iran riguarda la linea politica adottata dal governo di Teheran relativa allo sviluppo dell'energia nucleare per fini non strettamente civili. La situazione, nel caso specifico, supera (e di molto) il paradossale. Esistono attualmente otto paesi - Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Pakistan, India, Israele - in possesso di testate nucleari che o si sono rifiutati (Stati Uniti, Israele, India, Pakistan) di ratificare il Trattato di Non Proliferazione (TPN) o l'hanno ratificato (tutti i rimanenti) ma ne ignorano beatamente i vincoli.

Con la sottoscrizione del trattato in questione, i paesi firmatari che detengono arsenali nucleari si impegnano a non cedere ad altri le proprie testate (articolo 1) e quelli che ne sono sprovvisti a non acquistarne e a non fabbricarne (articolo 2), mettendo nel contempo i propri siti a disposizione dei membri dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) incaricati di ispezionare e accertarsi che l'energia atomica prodotta sia destinata a fini civili e non militari (articolo 3). Il Trattato prevede anche che gli stati firmatari si impegnino "A perseguire negoziati in buona fede su effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare, e su un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo sotto stretto controllo internazionale" (articolo 6).

Malgrado le alte finalità dichiarate con la ratifica del Trattato, il novero dei paesi firmatati in possesso di arsenali nucleari stanno esercitando fortissime pressioni internazionali a corrente alternata e geometria variabile, chiudendo gli occhi sull'operato degli alleati interessati ad affermarsi al rango di potenze nucleari e agitando, di converso, i vincoli del trattato solo ed esclusivamente contro i nemici. In un contesto in cui lo status di potenza nucleare è sinonimo o quantomeno garanzia di autonomia decisionale, è ovvio e normale che i paesi che non rispondono ad esso facciano il possibile per attrezzarsi in tal senso. Il compito degli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica risulta effettivamente difficile e ingrato, per via dell'anarchia che vige a livello internazionale, per la mancanza di un'istituzione al di sopra delle parti in grado a garantire che i vincoli del trattato vengano effettivamente rispettati e per la l'inesistenza di un limite netto che consenta di distinguere con sufficiente certezza uso civile da uso militare all'interno del ciclo dell'uranio sottoposto ad ispezione. Il materiale fissile è inoltre piuttosto abbondante, e all'incontrollabilità dei paesi che il trattato non l'hanno firmato si somma il vasto mercato clandestino che si occupa di smerciare sottobanco uranio sottratto dai depositi militari delle repubbliche ex sovietiche.

Quando poi "rivenditori" non autorizzati come il fisico pachistano Abdul Qadeer Khan o l'ingegnere sudafricano Johan Meyer vengono colti in flagrante la linea comunemente adottata dai loro paesi è quella improntata a "comprensione e tolleranza". Curioso, per usare un palese eufemismo, che in un contesto in cui il mercato nero di materiale nucleare sia oggetto di sostanziale noncuranza siano maturate le condizioni per costruire prove ad hoc al fine di condannare senza appello Saddam Hussein per essersi tacitamente dotato di armi atomiche suscitando un'isteria di massa in seno alla solita società statunitense (storicamente in grado di bersi le più colossali idiozie) che ha istantaneamente benedetto i vessilli di George Bush intento a guidare i propri crociati alla volta di Bagdad.

La Corea del Nord ha dimostrato di aver tratto i debiti insegnamenti dalla vicenda. Il governo di Pyongyang, una volta preso atto del fatto che l'aggressione statunitense all'Iraq era avvenuta malgrado Saddam Hussein avesse accettato di sottoporre ad ispezione i propri siti e nonostante non fosse stata rinvenuta l'ombra delle famigerate "armi di distruzione di massa", ha immediatamente deciso di ritirare il paese dal Trattato di Non Proliferazione (2003) e velocizzare i lavori per la fabbricazione di alcune testate nucleari, la cui ultimazione è stata poi ammessa nel corso di un discorso ufficiale pronunciato il 10 febbraio 2005. Il "caro leader" Kim Jong Il sarà sicuramente giunto alla conclusione che dal momento che un'accusa mossa in assenza di qualsiasi prova autentica a supporto si era rivelata condizione sufficiente per giustificare un'aggressione, tanto valeva dotarsi effettivamente dell'atomica quale strumento effettivo di deterrenza.

L'Iran si colloca invece nel solco dei paesi che non dispongono di alcun arsenale nucleare, ma sono accusati di lavorare in segreto per dotarsi di esso. E viene chiamato sul banco degli imputati principalmente dagli Stati Uniti, che in passato non avevano esitato a rifornire di uranio lo Shah Reza Pahlavi quando ancora l'Iran si chiamava Persia. Nel 1974 la Persia firmataria del Trattato di Non Proliferazione e detentrice di cospicui quantitativi di uranio fornitogli dagli Stati Uniti affidò la costruzione di due impianti nucleari presso Bushehr alla Siemens, che però interruppe i lavori nel 1979, in coincidenza con il putsch ai danni di Reza Pahlevi e alla simmetrica ascesa dell'Ayatollah Rhuollah Khomeini. Successivamente gli impianti subirono forti danneggiamenti causati dai raid aerei dell'aviazione irachena effettuati nell'ambito della sanguinosa guerra Iran - Iraq fomentata dalle potenze occidentali che poi non esitarono a trarre i debiti benefici rimpinzando di armi entrambe le fazioni in conflitto.

Conclusa la guerra, il governo di Teheran propose alla Siemens di completare il lavoro, ma la società tedesca declinò la proposta a causa delle forti pressioni statunitensi. L'Iran volse allora il proprio sguardo verso Mosca, riuscendo a concludere un contratto con la Russia nel 1995 per la costruzione di due reattori. Da allora le accuse di Washington si sono fatte sempre più vibranti, malgrado gli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica non abbiano riscontrato alcuna violazione del Trattato di Non Proliferazione da parte dell'Iran.

Vladimir Putin, responsabile principale della rinascita russa ignorò i reiterati moniti statunitensi girando tecniche di costruzione all'Iran per l'ultimazione dell'impianto di Bushehr e soprattutto sottoscrivendo, il 27 febbraio 2005, un accordo con il governo Teheran mediante il quale la Russia si impegnava a fornire materiale nucleare e a ritirare le scorie di risulta dal ciclo dell'uranio, sobbarcandosi in tal modo l'onere di monitorare la situazione impedendo che l'Iran potesse produrre plutonio.

Parallelamente, sull'altra sponda energetica, anche la Cina non ha esitato a raccogliere il guanto di sfida lanciato dagli Stati Uniti stipulando, nell'ottobre del 2004, un accordo con cui il governo di Pechino si addossava il compito di sviluppare il giacimento petrolifero di Yadavaran e si impegnava a versare l'esorbitante cifra di 70 miliardi di dollari nelle casse iraniane in cambio di costanti forniture di petrolio e gas liquefatto nell'arco di trent'anni dalla sottoscrizione.

Tali successi diplomatici, cui va sommato il progetto di costruzione del corridoio energetico che, articolandosi lungo il territorio pachistano, consentirebbe l'afflusso del gas iraniano ai terminali indiani, hanno conferito un peso indubbiamente maggiore all'Iran nell'ambito del mercato energetico internazionale, al punto da spingere il governo di Teheran di gettare la basi per la formazione di una Borsa petrolifera in grado di mettere in scacco il predominio indiscusso di quelle di Londra e New York.

Un Iran affermatosi al rango di potenza oligarca all'interno del mercato energetico internazionale, forte dell'alleanza con due grandi potenze in ascesa come Russia e Cina e quindi coperto abbastanza per ultimare il processo di arricchimento dell'uranio che potrebbe ipoteticamente preludere alla costruzione del temutissimo arsenale nucleare è una prospettiva inaccettabile per gli Stati Uniti, che infatti non hanno mai nascosto in questi ultimi anni l'intenzione di bissare il prodigio iracheno scatenando una seconda "guerra preventiva" contro l'Iran.

Israele, dal canto suo, funge regolarmente da cassa di risonanza alla propaganda anti iraniana propugnata dagli Stati Uniti, non esitando - in ragione della presunta aura di sacralità che avvolgerebbe i suoi rappresentanti di fronte ai quali i governanti europei danno regolarmente esempio della propria insignificanza - a arroccarsi su una posizione assolutamente indifendibile. l'Iran, che ha sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione e accetta le ispezioni dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, è oggetto di accuse e minacce mosse da Israele, che oltre a non aderire ad alcun trattato e a respingere al mittente ogni invito a sottoporre ad ispezione i propri impianti, è l'unica potenza a disporre di un arsenale atomico nella vasta area del Vicino e Medio Oriente.

La rivista militare "Jane's" stima che l'arsenale nucleare israeliano sia costituito da più di 300 testate, la cui potenza ammonterebbe a circa 50 megatoni. Tra i vettori strategici in dotazione alle forze armate israeliane si contano circa 350 tra velivoli "F - 151 Ra'am" e "F - 161 Sufa" in grado di trasportare un numero massimo di 20 missili nucleari "Popeye II" cadauno, e tre sottomarini "Dolphin" costruiti nei cantieri tedeschi appositamente per Israele, i quali pesano quasi 2000 tonnellate e dispongono di sei tubi lanciasiluri da 533 millimetri perfettamente conformi ai siluri nucleari da crociera "Popeye Turbo", la cui gittata è compresa tra i 250 e i 350 km e il cui fine è quello di garantire una "riserva" missilistica da utilizzare nel caso in cui l'arsenale nucleare di terra venisse distrutto parzialmente o interamente da un attacco a sorpresa. Ai missili classe "Popeye" vanno poi sommati quelli balistici "Jericho II", installati su rampe di lancio mobili e in grado di raggiungere obiettivi stanziati fino a 3000 km di distanza, e i razzi a lunga gittata "Shavit".

E' facendo ricorso a questa tipologia di testate che l'aviazione israeliana ha effettuato con successo il raid del 7 giugno 1981 mediante il quale è stato distrutto il reattore iracheno di Tammuz - 1. Ed è il fatto che armamenti simili siano tutt’ora disponibili a colorare di tinte fosche la situazione attuale. E’ acclarata infatti l'esistenza di piani militari orchestrati congiuntamente da Israele e Stati Uniti, finalizzati a distruggere i siti nucleari iraniani e comprendenti anche disposizioni pratiche - nel cui novero è certamente iscritta l'attivazione dell'arsenale nucleare israeliano - da mettere in atto nel caso (assodato) di ritorsione dell'Iran. Lo scopo del piano è lo stesso: evitare preliminarmente che maturino le condizioni necessarie affinché un qualsiasi paese non allineato si doti di un arsenale nucleare.

Non a caso l'approvazione del trattato "New Start" sul disarmo nucleare (Praga, 8 aprile 2010) mediante il quale Obama si è guadagnato la beatificazione mediatica da un lato ha sancito l'impegno di Russia e Stati Uniti a ridurre progressivamente alla modica cifra di 1550 le testate nucleari dispiegate (ovvero quelle installate su bombardieri strategici e su missili balistici) dall'altro ha tenuto fuori dalle trattative i veri "pomi della discordia", che riguardano l'effettiva proliferazione nucleare e l'ultimazione dello Scudo Antimissile.

In sostanza, la riduzione degli arsenali (assai insignificante, peraltro) è servita da foglia di fico "nobilitante" dietro la quale si cela l'intenzione degli Stati Uniti di rafforzare gli arsenali atomici dei paesi alleati e di estendere lo Scudo Antimissile ai limiti orientali dell'Europa, coincidenti con i confini russi. Così, mentre Iran e Corea del Nord vengono costantemente esposte alla pubblica esecrazione e continuano ad essere oggetto di minacce, Obama si è premurato di collocarsi nel solco tracciato a suo tempo da Bush (che aveva stipulato nel 2008 un trattato con Nuova Delhi per la fornitura di materiale nucleare) intavolando, a ridosso del “Nuclear Security Summit” di Washington del 12 - 13 aprile 2010, le trattative con il primo ministro indiano che hanno portato alla sottoscrizione di un accordo in base al quale gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire materiale fissile "spento" da cui l'India potrà estrarre sia uranio arricchito sia plutonio, da destinare sia a scopi civili che militari.

In compenso, l'India ha accettato poi di aderire "parzialmente" al Trattato di Non Proliferazione riconoscendo giurisdizione agli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica su quattordici impianti civili e negandogliela per altri otto. Il Pakistan, il cui rappresentante era presente al vertice di Washington del 2010, non è stato certo a guardare e ha infatti proceduto alla costruzione di tre nuove centrali destinate alla produzione di testate atomiche di ultima generazione. Il fatto stesso che al tavolo del “Nuclear Security Summit” sedessero i rappresentanti di paesi dotati di arsenali atomici e non firmatari Del Trattato di Non Proliferazione quali Israele, India e Pakistan ma non quello dell'Iran, che il trattato l'ha sottoscritto, accetta le ispezioni e il nucleare militare non l'ha sviluppato, risulta assolutamente paradigmatico; la legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta.

Diverso è invece il discorso riguardante lo Scudo Antimissili. Dal momento che garantisce a chi ne entra in possesso la possibilità di sferrare il primo colpo (first strike) senza incorrere nelle devastazioni causate dalla ritorsione di chi subisce l'attacco, lo Scudo Antimissile non può essere assolutamente considerato uno strumento di difesa, ma di offesa. Ciò ha allarmato fortemente la Russia, che per bocca del generale Nikolai Makarov ha chiarito che il proseguimento, da parte degli Stati Uniti, dei lavori finalizzati alla costruzione dello Scudo "Porterà inevitabilmente a una nuova fase della corsa agli armamenti, minando l’essenza stessa del trattato sulla riduzione della armi nucleari". Il medesimo concetto espresso con franchezza da Makarov è stato poi ripreso dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov che, a pochi giorni dal vertice di Praga contestuale al Trattato "Start 2", ha intimato che "Mosca si riserva il diritto di ritirarsi dal nuovo Start se lo scudo antimissile che gli Usa vogliono costruire avrà un impatto eccessivo sull’efficacia delle forze nucleari strategiche russe".

E’ precisamente in ragione della sfacciata aggressività statunitense e in risposta alle orecchie da mercante fatte da Barack Obama - che si dimostra ogni giorno di più il naturale successore di George Bush - di fronte ai reiterati moniti a interrompere l’attuazione del programma “ABM” (Anti Ballistic Missile) comprendente lo Scudo Antimissile che la Russia ha ripreso il progetto “ICBM” (Inter Continental Ballistic Missiles). Lo sviluppo di tale progetto ha permesso alla Russia di arricchire i propri arsenali di un cospicuo numero di missili balistici intercontinentali a propellente solido “SS – 27 Topol M” che, dotati di testata nucleare e con una gittata di 10000 km, sono montabili su autoveicoli in movimento e quindi in grado di perforare gli odierni sistemi di difesa antimissile. La tipologia di missile in questione è stata inoltre soggetta a progetti di ammodernamento, che hanno preluso e portato alla costruzione dei missili balistici intercontinentali RS – 24, dotati di testata nucleare e attrezzati per colpire bersagli situati a 6500 km di distanza. La flotta russa dispone anche di sottomarini “Akula” in grado di trasportare venti missili balistici con 10000 km di gittata dotati di dieci testate nucleari cadauno. Esso risulta particolarmente pericoloso in virtù della sua silenziosità e della possibilità che offre di lanciare i propri missili da una profondità tale da renderne difficile l’individuazione. Esistono inoltre numerosi progetti che consentiranno al governo di Mosca di disporre di armamenti nucleari ancor più sofisticati nell’arco dei prossimi anni a venire.

In conclusione, le sommosse palesemente eterodirette che stanno scuotendo la Siria rientrano nel più ampio confronto tra paesi destinati ad assurgere al rango di potenze nel contesto multipolare che va attualmente (pur non senza battute d’arresto) delineandosi e sono evidentemente al centro di una fitta rete di interessi in aperta opposizione tra loro. Se la Russia saprà far valere i propri, sbarrando la strada alle potenze atlantiche e rinsaldando l’alleanza con il governo di Damasco, la Cina si sentirà incoraggiata ad entrare attivamente in gioco, Assad riprenderà il totale controllo della situazione in tempi brevi e verranno meno le condizioni per un espansione dei “moti popolari” verso l’Iran, che potrà perseguire .

Se invece, in caso contrario, le lacerazioni di vertice tra Putin e Medvedev (e tra i loro rispettivi schieramenti) inchioderanno il governo di Mosca ad una passività affine a quella mostrata in sede ONU in occasione del voto relativo all’approvazione della risoluzione 1973 contro la Libia, la Russia perderà una volta per tutte la propria capacità dissuasoria, la Cina si ritirerà nel suo abituale opportunismo, l’asse atlantico prenderà in mano le redini della situazione e si spalancheranno le porte per ulteriori interventi “umanitari” da muovere, nel giubilo di Israele, presumibilmente contro Siria ed Iran, che potrà dire definitivamente addio ai propri aneliti autonomisti. Lo Scudo Antimissile verrà ultimato e gli Stati Uniti si saranno così garantiti un enorme margine di vantaggio sui propri avversari. La Russia si trova quindi a fronteggiare una sfida cruciale. Il banco di prova siriano emetterà un verdetto inappellabile.

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