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giovedì 30 giugno 2011

TAV in Val di Susa, facciamo chiarezza


Intervista di Fabio Polese a Marco Cedolin per il quotidiano Rinascita.

I recenti avvisi di garanzia che in questo periodo sono stati recapitati ad una sessantina di persone che si battono contro il Treno ad Alta Velocità in Val di Susa, unitamente agli annunci concernenti la prossima apertura del cantiere di Chiomonte, hanno riacceso i riflettori sulla questione. Per discutere su una battaglia che stanno portando avanti - ormai da quasi 20 anni - molti abitanti della zona, abbiamo incontrato Marco Cedolin, autore di “T.A.V. in Val di Susa – Un buio tunnel nella democrazia”, edito da Arianna Editrice e parte integrante del movimento denominato “No T.A.V.”.

Cedolin, ci spieghi le motivazioni che vi spingono quotidianamente a scendere nei boschi e a bloccare fisicamente i lavori per la costruzione del Treno ad Alta Velocità con il rischio dell’incolumità fisica e penale…

La Val di Susa è una valle alpina larga mediamente 1,5 km, all’interno della quale corrono una ferrovia internazionale a doppio binario, il cui ammodernamento è terminato un anno fa, un’autostrada, la cui costruzione è stata completata nel 2000, due statali, alcune strade provinciali e un fiume. Il fondovalle è già oggi simile ad una colata di cemento senza soluzione di continuità e immaginare la presenza di una nuova infrastruttura delle dimensioni e degli impatti di una linea ad alta velocità sarebbe semplicemente pura follia.....

Negli anni 90 i cittadini sono stati costretti a sopportare, obtorto collo, la profonda devastazione del territorio conseguente alla costruzione di una nuova autostrada, con la motivazione che l’infrastruttura fosse giustificata dal proponimento di “togliere” i TIR dai paesi.

La costruzione dell’autostrada non era ancora terminata e già la “banda del tondino e del cemento” aveva iniziato a progettare il TAV che avrebbe dovuto togliere quegli stessi TIR dall’autostrada appena costruita, per metterli sui treni. La popolazione ha subito percepito il profondo cortocircuito logico e dopo essere stata presa per il naso una volta ha deciso di non porgere l’altra guancia.

Ma è possibile che un movimento popolare come il “No T.A.V.” non abbia aiuti e pressioni da parte di partiti o singoli politici italiani? Come è organizzato questo movimento?

Il movimento NO TAV è composto da migliaia di cittadini, di ogni estrazione sociale e dalle simpatie politiche più svariate. I cittadini sono organizzati in Comitati, in linea generale uno per ogni paese. Le decisioni vengono prese nel corso di coordinamenti ai quali partecipano esponenti di tutti i comitati e poi, qualora si tratti di decisioni di una certa importanza, portate in un’assemblea popolare alla quale può partecipare chiunque, dove verranno approvate o bocciate.
I partiti, da sempre, tentano di mettere il cappello su qualunque lotta popolare possegga una qualche potenzialità di visibilità mediatica. Nel caso di quella contro il TAV in Val di Susa, rimasta a lungo sulle prime pagine dei giornali, si è trattato senza dubbio di una “torta” quanto mai ambita. Ci hanno provato soprattutto i partiti della cosiddetta sinistra radicale, che nel 2005 hanno sostenuto, mai manovrato perché i cittadini gli hanno sempre impedito di farlo, la lotta della popolazione. Raccogliendo poi una valanga di voti alle elezioni del 2006, su programmi elettorali rigorosamente contrari all’alta velocità. Una volta saliti al governo hanno poi disatteso il mandato degli elettori, arrivando a firmare il dodecalogo di Prodi che di fatto sponsorizzava il TAV. E alla tornata elettorale successiva sono stati pesantemente puniti, mentre è stato premiato il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, oggetto di un voto plebiscitario ed attualmente parte integrante del movimento NO TAV alla stregua di qualsiasi altro comitato, senza però alcuna velleità di governarne le decisioni.
Dietro al movimento NO TAV, se la cosa non fosse chiara, ci sono i cittadini della Val di Susa.

Sta affermando che il movimento “No T.A.V.” è a tutti gli effetti una “lotta di popolo”?

Senza ombra di dubbio, una lotta che nasce dal popolo, coinvolge il popolo e viene portata avanti dal popolo in completa autonomia. Se il leader di un partito o di un’associazione ambientalista vuole portare solidarietà è sempre il benvenuto, come può esserlo un uomo di musica o di sport, ma i partiti politici hanno ormai compreso appieno che il movimento NON TAV si “governa da solo”.

Quanto costerebbe la realizzazione del T.A.V. per i contribuenti italiani? Che ruolo hanno le lobbie dei costruttori?

Nelle stime portate da coloro che propongono l’opera, il Tav in Val di Susa dovrebbe costare fra i 15 ed i 20 miliardi di euro. Se si applica a tali previsioni iniziali l’incremento medio (300% rispetto alla previsione) di costo rilevato nella costruzione di tutte le tratte TAV in Italia, si può ragionevolmente parlare di una sessantina di miliardi di euro. Che i contribuenti italiani saranno chiamati a pagare sotto forma di debito pubblico nei decenni a venire, a fronte di un’opera che perfino Marco Ponti (economista di fama e probabilmente maggior esperto italiano in tema di trasporti) ha definito inutile e priva di qualsiasi prospettiva di ritorno economico. Le lobby dei costruttori hanno un ruolo subalterno a quelle della finanza, ma con un mare di denaro come quello in oggetto si prospetta un desco dove ci sarà da mangiare per tutti, dalle grandi banche ai grandi gruppi industriali, per non parlare delle cooperative rosse, con in testa la CMC appaltatrice dei lavori per il tunnel geognostico oggetto della contesa di Chiomonte.

Bartolomeo Giachino, sottosegretario ai trasporti, ha dichiarato che nel piano della logistica per la crescita economica del paese il “Corridoio 5” è fondamentale. Potrebbe realmente essere una valida alternativa al trasporto su gomma?

Bartolomeo Giachino non ha studiato bene la questione, ma poco importa, perché il lavoro del politico e quello d’imbonire l’interlocutore e non d’informarlo. Il fantomatico Corridoio 5 altro non è che una linea tracciata sulla cartina geografica, oltretutto dalla valenza molto scarsa. Gli esperti di trasporti hanno più volte sottolineato come i traffici ovest – est siano in larga parte interni ai singoli stati e non transfrontalieri ed il volume di traffico sull’asse Lisbona – Kiev non sia tale, neppure in prospettiva, da giustificare un’infrastruttura di questo genere. Così come hanno ribadito che un’eventuale corridoio ovest – est dovrebbe per logica correre a nord delle Alpi, dove la conformazione morfologica del territorio è ideale e non scendere in Italia bucando le montagne con gallerie di 50 km, per poi tornare a Nord attraversando il Carso. Oltretutto Giachino, non avendo studiato, non sa che per quanto concerne l’Italia il Corridoio 5 esiste già. In Val di Susa esiste una ferrovia internazionale ammodernata di recente, sulla quale potrebbero venire caricate merci a profusione. Il problema è che le merci da caricare non ci sono (dal momento che viaggiano su direttrici nord – sud e non est – ovest) e la ferrovia “nuova fiammante” della Val di Susa è sfruttata a meno del 30% delle sue potenzialità.

Qual è la situazione che se respira in questi giorni?
Una situazione di attesa. La politica e gli industriali hanno promesso un assalto all’arma bianca e la militarizzazione del territorio. I cittadini aspettano, fiduciosi del fatto che se anche con l’uso della violenza le forze dell’ordine riuscissero a sgomberare la popolazione e prendere possesso dei terreni, torneranno a riprenderseli in decine di migliaia, come già accaduto nel 2005.

Secondo lei cosa si prepara nel futuro?

Sicuramente un futuro sul quale aleggia lo spettro dell’uso della forza e della violenza. Tutto sommato però sono ottimista, quando decine di migliaia di persone hanno il coraggio di frapporsi fra le ruspe e la loro terra, come nel 2005, qualsiasi lobby non ha altra strada che non sia quella di ritirarsi in monastico silenzio.

Fonte: Rinascita

I due mali: Berlusconi e l’opposizione politica e mediatica a Berlusconi. Aspettando i veri eroi e la vera alternativa


di A.D.G. & F.C. La voce del corsaro



Il 17 giugno 2011 un’altra stoccata è stata tirata al tiranno Silvio Berlusconi. In piazza assieme ai metalmeccanici della FIOM c’erano Michele Santoro, Marco Travaglio e soci, i quali hanno esposto al pubblico in visibilio tutto il marciume della nostra società: precariato, disoccupazione galoppante, corruttela e favoritismi vari. Finalmente, anche noi in Italia, abbiamo eroi che ci snocciolano le verità dinanzi agli occhi, i “portatori sani” d’indignazione e rabbia contro questo stato di cose. La testa della “piovra” di questo sistema malato, Silvio Berlusconi, è ormai in dirittura d’arrivo verso la fine. Dopo la sconfitta alle elezioni amministrative e il “clamoroso” successo dei referendum, possiamo asserire che il vento sta cambiando! ( YES, WE CAN!)

Aspettate un attimo! Siamo sicuri che sia così? E’ questa la verità?

Uno dei paladini dei referendum, e non solo, Marco Travaglio, in un’intervista dichiarò: “sarò antiquato, sarò diventato comunista senz’accorgermene, ma non riesco proprio a capire perché mai delle aziende private dovrebbero lucrare su un bene pubblico come l’acqua”.[1] Da questa intervista si evincerebbe un Travaglio quasi “socialista”, ma vediamo veramente quali sono le sue idee in campo politico: “io sono favorevolissimo alle privatizzazioni… Berlusconi non ha mai privatizzato nemmeno un canile!”.[2] Come mai appena Berlusconi privatizza qualcosa(seguendo tra l’altro una direttiva europea), il dottor Travaglio gli va subito contro, negando e contraddicendo le sue stesse idee? Probabilmente perché il suo antiberlusconismo militante lo porta addirittura a disconoscere i suoi ideali “neoliberisti”. Un uomo davvero coerente!

Sullo stesso tema dei referendum è d’obbligo citare il primo protagonista, l’eroe in salsa molisana Tonino Di Pietro. Egli ha impiegato più di un anno a raccogliere firme per il referendum, tutto per il suo amore per il popolo italiano. Ma ritorniamo indietro di qualche anno, andiamo al 1996 quando fu ministro dei Lavori Pubblici per appena 6 mesi nel governo Prodi, il tempo necessario per introdurre i principi normativi per la tariffazione e la privatizzazione dell’acqua.[3] Forse ora le cose cominciano ad essere più chiare, si comincia a capire qual è il vero obiettivo dei nostri eroi: cercare di fare il possibile per abbattere il “totem” Berlusconi. Questo è l’obiettivo che Di Pietro condivide da anni con l’Ingegner Carlo De Benedetti. Risale al novembre 1995 un’intercettazione telefonica tra i due, quando i magistrati di Brescia indagavano Di Pietro per concussione e abuso d’ufficio. La conversazione riguarda:

Amici in comune: D.P.: “Noi, a questo punto, ho capito che abbiamo tanti amici comuni" . D.B.: "Eh, ne abbiamo tanti, sicuro". D.P.: "Tanti amici comuni, con cui lavoriamo insieme". D.B.: "Bene… e Prodi e' uno di questi… no?". D.P.: "Prodi e' uno di questi, si.”

Progetti condivisi: D.B.: "Si, ma il suo progetto va avanti?". D.P.: "Il nostro progetto… il nostro, eh si il progetto va avanti, stiamo lavorando, ma… preferisco parlargliene a voce". D.B.: "Con grande piacere!".

Anomalie politiche: D.B.: "Quello di Berlusconi e' una cosa del tutto anomala, però … in fondo, io trovo che tutte le invasioni di campo…". D.P.: "Mah… quello… che… partito azienda e' azienda potere, quindi…". D.B.: "Quindi e' una cosa diversa infatti". D.P.: "Ancora un po' più … più …". D.B.: "Al peggio, in quanto…".[4]

Allora, da questa intercettazione evinciamo che amici, progetti e nemici erano gli stessi, ma a legare realmente questi due personaggi è questo: Di Pietro è stato l’alfiere di “mani pulite” ed ha favorito quello che l’ex ministro Renato Altissimo denuncia in un’intervista: “De Benedetti ha fatto una montagna di miliardi comprando (a poco) dallo Stato e vendendo (a molto) per le sue tasche. Così ha fatto i soldi – quelli veri – in quegli anni. E così sogna di farne ancora e di più. Un giochetto che Bettino Craxi e chi stava all’epoca con lui al governo non gli avrebbe mai permesso e per questo chi più chi meno siamo stati massacrati. Adesso la storia si ripete. E probabilmente ora l’ostacolo da abbattere si chiama Silvio Berlusconi”.[5]

Ecco finalmente svelato il progetto del “capitalista buono” De Benedetti e dei suoi “compagni di merende” del centrosinistra. Ma com’è possibile che partiti come il PCI/PDS e alcuni membri “illustri”(vedi Amato) del PSI e della DC non siano stati toccati minimamente dalle inchieste? E come mai uomini come Berlusconi, estranei al “disegno” post-Tangentopoli, sono crollati dopo appena 7 mesi di governo? I primi erano i fautori del programma di privatizzazioni, il secondo, invece, era un po’ restio ad attuare in fretta questo programma, e per questo fu considerato una “anomalia” nel panorama politico italiano. Quest’ultimo, comunque, grazie a vicende giudiziarie non fu un grande problema, infatti, dopo appena 7 mesi fu sostituito dal “tecnico” Dini che riprese a far galoppare il “progetto”. Il coordinatore perenne di quegli anni del programma di svendita del comparto pubblico italiano fu Sir Mario Draghi, che coordinò eccellentemente la cessione di gruppi industriali italiani a investitori e fondi esteri. Come ricompensa del servigio, “Sir Drake” fu nominato vicepresidente della Goldman Sachs, banca d’affari americana, che aveva fatto incetta del patrimonio pubblico nostrano. “Mario Draghi è una persona seria che ha superato il suo conflitto d’interesse[6]”, ha il coraggio di affermare il buon Marco Travaglio, rabbonendo i suoi acritici fans.

I nostri “portatori sani” d’indignazione, si fanno spesso anche portavoce dei quotidiani e delle riviste straniere, che attaccano sistematicamente il premier per le sue scarse qualità di “riformatore”. Nel 2006 l’Economist: “Chi lo votò sperava che avrebbe usato la sua abilità di businessman per riformare l’economia. Ma il punto è che il governo di centro-destra non ha neanche avviato il processo. La nostra conclusione è che Berlusconi come riformatore ha fallito”.[7] Sempre l’Economist sulle elezioni di quell’anno: “Berlusconi è unfit (inadeguato). Noi appoggiamo Prodi perché è più vicino al modo di pensare dell’ Economist”.[8] Ma qual è il modo di pensare dell’Economist, che cosa vuole? Beh, è normale, liberalizzazioni del mercato e privatizzazioni a “grappolo”! Ecco invece cosa dice il tedesco Der Spiegel lo stesso anno: “L’amministrazione Berlusconi non ha mai mantenuto le promesse di taglio alle tasse, ulteriori privatizzazioni, e riforme strutturali necessarie per aumentare la competitività e privare le burocrazie del potere”.[9] Nel 2008 l’Economist ritorna su Berlusconi per la vicenda Alitalia: “Le stesse parole di Berlusconi sul futuro di Alitalia, la disastrata compagnia area di bandiera, fa capire come sia più appassionato a patriottici campioni nazionali, comunque inefficienti, che alla disciplina del libero mercato”.[10] Ma è il Wall Street Journal il più chiaro di tutti: “Berlusconi si è orientato ad essere più un sostenitore delle corporazioni avverso alla libera competizione di mercato, invece che un liberal che intende fare quello di cui l'Italia ha bisogno per rilanciare la sua barcollante economia”.[11]

Quindi Berlusconi per gli alfieri del “libero mercato” è un inguaribile indisciplinato, una scheggia impazzita e incontrollabile, un “riformatore” solo a parole che non apre i cordoni del mercato alla finanza internazionale, come afferma l’Economist nel giugno 2011: “Berlusconi è arrivato al potere con l'idea di essere un imprenditore di successo in grado di fare le riforme economiche, ma poi non le ha fatte e il Paese ha sprecato tempo prezioso”.[12] Ma quali sono queste tanto decantate riforme? Eccole: maggiore produttività(più ore di lavoro), diminuzione delle retribuzioni, taglio ai dipendenti pubblici, liberalizzazioni dei servizi in ambito europeo, contratti di lavoro più flessibili, innalzamento dell’età pensionabile tenendo conto dell’aspettativa di vita, taglio alla spesa pubblica e chi più ne ha più ne metta. A questo punto arriviamo alla domanda fatidica: con quale coraggio, i nostri paladini, propugnatori di queste “riforme”, si presentano nelle piazze dei lavoratori a far la RETORICA del lavoro, della precarietà e della giustizia sociale? Perché non ci hanno mai spiegato cosa sono queste tanto inneggiate “RIFORME”? La risposta è semplice: questi falsi eroi hanno creato il castello di sabbia dell’indignazione e della denuncia contro falsi nemici, assolvendo, invece, gli speculatori, i vili affaristi, i grandi capitalisti e i politici asserviti alla causa ultraliberista che hanno portato il nostro Paese e il Mondo intero al macero. Inconsapevolmente o in malafede poco importa, perché l’opinione pubblica, grazie alla sistematica disinformazione di taluni “paladini”, indirizza in modo sbagliato l’azione civica e politica.

Naturalmente, nessuno qui sta facendo propaganda a Silvio Berlusconi, cercando di paragonarlo ad un Chavez o ad un Allende. La sistematica lotta della finanza internazionale contro Berlusconi non avviene perché egli non sia un liberista, ma avviene perché è un liberista atipico, troppo legato al protezionismo dei suoi alleati politici, troppo distratto dalle sue vicende personali e private per potersi interessare anima e corpo alla liberalizzazione dell’economia. Per questo gli interlocutori ideali diventano i vari Romano Prodi e tutta la combriccola del centrosinistra, che ligia al dovere ha sempre operato in loro favore. L’invito è quello di tenere gli occhi aperti, non fidarsi di nessuno, soprattutto degli “eroi” che distraggono l’opinione pubblica dai veri problemi che attanagliano il nostro sistema, facendoci credere che le malefatte di uno o dell’altro politicante siano il vero problema. Le riforme strutturali che l’Italia ancora non attua sono una tenaglia che stringerà ancor di più la vita delle persone, in nome di una competitività che arricchirà sempre gli stessi uomini, e che poco a poco sta trasformando sempre di più l’uomo in un automa meccanizzato non pensante. Per questo, aspettando i “veri eroi” e la “vera alternativa” a questo sistema, lascio a voi la riflessione su cosa sia giusto e cosa invece no.

A.D.G & F.C.

Note:

mercoledì 29 giugno 2011

UN MILIONE IN MARCIA PER GHEDDAFI: DOV'È LA STORIA?


Lo scorso venerdì un milione di cittadini libici sono scesi nelle strade di Tripoli per marciare in favore del loro Fratello Leader Muammar Gheddafi e contro il terrorismo dalla precisione criminale scagliato sulla popolazione libica dalla NATO e dai terroristi che stanno proteggendo. Ma dove si può leggere questa storia?

Nella sua intervista con Press TV, la giornalista Lizzie Phelan ha parlato di quello che ha visto nei suoi viaggi in Libia. Quello che ha riferito non è propaganda, sono testimonianze di prima mano della verità nel paese che Muammar Gheddafi ereditò come il più povero in Terra e lo trasformò nel più ricco dell’Africa. Tutti questi nemici sono riusciti a fare qualcosa del genere?

In questa magnifica intervista, Lizzie Phelan ha fornito resoconti di prima mano alle fonti di Pravda.Ru presenti in Libia che venerdì a Tripoli è avvenuta una dimostrazione di massa a favore di Muammar Gheddafi. Un milione di libici su una popolazione di sei milioni è uscito nelle strade in supporto del loro governo e contro i terroristi contro-rivoluzionari, reazionari e che la NATO sta sostenendo.Questa sarebbe l’equivalente di una dimostrazione di dieci milioni di persone in Gran Bretagna o di cinquanta negli Stati Uniti. Riuscirebbero Cameron, Sarkozy o Obama a radunare tali folle di sostenitori? Se ne avessero anche dieci volte meno sparerebbero i fuochi d’artificio. E questo mostra la dimensioni di questi… uomini di fronte al Colonnello Gheddafi.

Lei ha parlato della rivolta e del disgusto sentito dalla gente comune in Libia - qualcosa che ci era già stato riferito dai nostri contatti, in principal modo contro la perfida malvagità di Cameron e Sarkozy – e ha sottolineato la convinzione che in futuro non verrà firmato alcun contratto con le compagnie britanniche o francesi dopo lo scandalo dei terroristi:

"Questa scusa della NATO è davvero una barzelletta. È la prima scusa che ha fatto in tre mesi nonostante i civili muoiano ogni giorno a causa dei bombardamenti della NATO; negli ultimi tre mesi ci sono stati migliaia di bombardamenti sul paese e così hanno deciso di scusarsi ieri di domenica. Ma di nuovo alle 2 di mattina c’è stato un altro attacco sulla città di Sorman, 130 chilometri a est di Tripoli dove altri quindici civili e tre bambini sono stati uccisi."

"Nelle settimane precedenti abbiamo assistito al bombardamento dell’Università di Al-Nasr a Tripoli alla luce del giorno in cui sono stati assassinati civili: questi sono gli obbiettivi militari che abbiamo visto bombardare. Vediamo bombe che cadono sulle università, bombe sulle strade dei mercati del venerdì in quartieri dove non ci sono siti militari. La strada del mercato di venerdì dove ero presente inizia con un ufficio postale e finisce con una scuola elementare e hanno bombardato quattro edifici e hanno ucciso nove civili tra cui un infante di quattro mesi."

Phelan ha anche evidenziato un altro punto, totalmente tralasciato dai media occidentali che hanno raccontato la storia libica con una serie sgradevole di falsità mal riuscite, con poco giornalismo e molta faziosità: le vessazioni, la persecuzione e il massacro dei neri libici da parte dei terroristi di Benghazi e le bugie diffuse da Al Jazeera e da altri media che questi fossero mercenari. Non lo erano.

Ha parlato in modo particolare delle "indicibili atrocità" che ha testimoniato e dell’incredibile supporto per il governo di Gheddafi:

"Per quanto riguarda le tribù libiche, dalle mie fonti ho informazioni che il 90 per cento delle tribù in Libia stanno sostenendo il governo e tra queste ci sono le più numerose." Ha anche evidenziato che Gheddafi "sta facendo passi indietro per sistemare le forze dell’opposizione dentro il governo".

Leggete questo documento dettagliato sui dati umanitari di Muammar Gheddafi:
http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrcouncil/docs/16session/A-HRC-16-15.pdf


di Timothy Bancroft-Hinchey (Pravda.Ru)
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Goldman Sachs ufficialmente a capo della BCE

 

Mario Draghi, ex presidente di Goldman Sachs Europa, assume oggi la presidenza della Banca centrale europea.
Presiedeva la banca d’affari americana quando, negli anni 2000, aiutava la Grecia a truccare i suoi conti pubblici. Il compito di Draghi sarà quello di salvaguardare gli interessi delle banche nell’attuale crisi europea.

Ci si poteva chiedere fino ad oggi per quale motivo la Banca Centrale Europea e il suo presidente Jean Claude Trichet si opponessero in maniera così virulenta – perfino contro la cancelliera tedesca – a qualunque ipotesi di ristrutturazione del debito greco. Un atteggiamento che appariva incomprensibile visto che tutti gli analisti, compresi gli economisti delle banche, concordano nel ritenere che la Grecia non potrà garantire il rientro del debito alle attuali condizioni contrattuali. È opinione diffusa che un diverso scaglionamento o meglio una parziale cancellazione, siano inevitabili. Volerne ritardare la scadenza non fa che peggiorare i guasti economici e sociali provocati dai piani di austerità brutali e impopolari imposti al popolo greco.

A nomina di Draghi chiarisce le cose. La BCE non difende gli interessi dei cittadini e dei contribuenti europei, ma gli interessi delle banche. Grazie ai “piani di salvataggio” della Grecia e al “meccanismo europeo di stabilità” messo in atto da BCE, FMI e dall’Unione, “la parte di debito greco in mano ai contribuenti stranieri passerà dal 26% al 64% nel 2014. Vale a dire che l’esposizione di ciascuna famiglia della zona euro passerà dagli attuali 535 euro a 1.450 euro”. (Les Echos, 23 giugno 2011)

Il salvataggio della Grecia consiste di fatto in una gigantesca operazione di socializzazione delle perdite del sistema bancario. L’essenziale del debito greco – ma anche di quello spagnolo e irlandese – viene trasferito dalle mani dei banchieri a quelle dei contribuenti. Sara così possibile in seguito addossare i costi dell’inevitabile ristrutturazione di quei debiti ai bilanci pubblici europei.

Come dicono gli Indignati spagnoli “Non è una crisi, è una truffa!”. Il Parlamento europeo ieri ha votato il “Pacchetto di governante economica” che riforma il patto di stabilità appesantendo i vincoli sui bilanci nazionali e le sanzioni contro i paesi che li infrangono. Il Consiglio europeo che si riunisce oggi e domani completerà la bisogna. E non sarà la prossima nomina di Christine Lagarde a capo del FMI a ridurre il potere delle banche sulle istituzioni finanziarie internazionali, al contrario.

Ma la resistenza sociale e civile sta crescendo in tutta Europa. Governare per i popoli o per la finanza? Oggi la risposta è chiara: i popoli europei devono riprendere l’iniziativa per costruire insieme un’altra Europa.
Gli Attac di tutta Europa organizzano dal 9 al 13 agosto l’Università europea dei movimenti sociali a Friburgo, in Germania. Quest’estate sarà uno dei luoghi più importanti di coordinamento delle resistenze e di costruzione delle alternative europee.

Attac Francia, 24 giugno 2011
Tratto da: Attac Torino

Argentina: L'ex capo del FMI torna sul luogo del delitto


L'Islanda ha ottenuto un rimborso in 37 anni (anzichè 15), con un tasso del (3%) anzichè 5,5% ..dopo rivolta e referendum contro il governo piegato al FMI - Usurai dialogano solo quando il debitore "esce pazzo".
Tito Pulsinelli

In questi giorni, l'ex numero uno del Fondo Monetario Internazionale, dal 1987 a 2000, era in viaggio in Argentina. In un certo senso, Michel Camdessus è tornato sul luogo del delitto, a vedere se le macerie prodotte dalle sue decisioni fondamentaliste erano state rimosse o no. Il buon Michel, durante i lavori del XIV Incontro dell'Associazione Cristiana degli Industriali, ha avuto anche la delicatezza di dire queste parole: "Probabilmente ci furono molti errori, facemmo molte stupidate". Si riferira ai draconiani "aggiustamenti strutturali" che riuscì ad imporre al corrotto presidente Menem ed al famigerato ministro Cavallo. Entrambi, stabilirino la parità cambiaria tra il peso e il dollaro, e dall'Argentina ci fu la più straordinaria fuga di capitali dei tempi moderni. Quali sono queste "stupidaggini"? (terminologia odierna del pio Michel Camdesuss).

Dal maggio 1991 ad ottobre del 2000, la disoccupazione aumentò dal 7% al 15%: 1 milione e 200mil persone -su una popolazione di 40milioni- perse il lavoro. Soppressione di intere tratte della rete ferroviaria che buttò sul lastrico altre 200mila persone, con molti centri abitati tagliati fuori dalle comunicazioni ed isolati. Triplicato il debito estero: non esistono cifre ufficiali, le uniche sono quelle apportate dal FMI o banca privata internazionale.

Il corollario umano della ricetta ("stupidaggini") imposta da Camdessus, valida in ogni luogo e spazio terracqueo, sono tanti paesi abbondanati, esodo verso le città, aumento della violenza e della criminalità, 40% dei lavoratori al "nero" (flessibilità), chiusura di scuole, scadimento dell'istruzione obbligatoria, privatizazione, saccheggio dei beni della nazione.

Fino a quando alla coppia Menem-Cavallo (insigniti di molti honoris causa da varie madrasse d'Economia in università liberiste internazionali), per raschiare il barile chiuse gli sportelli delle banche, per impedire il ritiro dei risparmi!

Era il famoso "corralito": le élites avevano già espatriato i loro averi (in dolari!), e tentarono di impedire a classe media ed impiegati di recuperare i loro risparmi. Fu la scintilla che innescò la ribellione: fuga di 5 Presidenti, caduta in serie di governi, sospensione del pagamento del debito estero, FMI messo alla porta. Fu l'inizio della recuperazione, lenta, costante. Gli usurai scendono a più miti consigli solo quando il debitore "esce pazzo", si ribella o smette di pagare. Si arrivò a rinegoziare la mole del debito, tipo di interesse e modalità di pagamento. FMI ed usura internazionale temono l'effetto contagioso su altri Paesi, per evitare fronti comuni e lasciare l'ordine sparso, preferiscono trattare, fare sconti.

Lo dimostra recentemente l'Islanda: dopo il referendum con cui i cittadini bocciarono il pagamento del debito firmato dal governo, l'usura internazionale immediatamente propose un rimborso in 37 anni (anzichè 15) e una tassa di interesse del 3% (anzichè 5,5%). Il piccolo Ecuador guidato dal'economista Correa, non minacciò mai la sospensione del pagamento degli interessi, nè la moratoria, si limitò a decidere di sottoporre ad una revisione delle scritture contabili e dei contratti sottoscritti tra la banca privata internazionale ed i corrotti governanti ecuadoriani che l'avevano preceduto. Insomma, una espertizia con cui altri occhi ed altri mani intervenisero nella matassa volutamente complicata, quasi esoterica. Anche l'Ecuador potè imporsi a quanti tuonano che il "male minore" è che gli Stati paghino i fallimenti dei banchieri, e i cittadini si "rimbocchino le maniche".

Tratto da: Selvas Blog

martedì 28 giugno 2011

L’ORGANIZZAZIONE DI SHANGHAI PER LA COOPERAZIONE VS. BILDERBERG


Mentre l’élite occidentali si riunivano nella pittoresca St. Moritz per decidere sulla crisi mondiale, gli outsider si sono incontrati nelle steppe desolate dell’Asia Centrale.
La scorsa settimana il decimo summit della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nella capitale kazaka, Astana, ha evidenziato come i più grandi rivali dell’impero, guidati da Russia e Cina, stanno cercando di plasmare un’alternativa all’egemonia degli Stati Uniti.

La SCO è l’unica grande organizzazione internazionale che non ha tra i suoi membri gli USA o uno qualsiasi dei suoi stretti alleati, e la sua influenza è sempre più forte in tutta l’Eurasia. I leader degli stati membri, Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan si sono incontrati con i leader dei paesi osservatori, Iran, Pakistan, India, Afghanistan e Mongolia. La Bielorussia e lo Sri Lanka sono stati ammessi come partner al dialogo e prima del suo arrivo a Astana per frequentare la riunione, il Presidente cinese, Hu Jintao, ha visitato l’Ucraina.

Con un’ampollosità tipicamente cinese, la Dichiarazione di Astana ha sottolineato gli sforzi per combattere le "tre forze" del "terrorismo, dell’estremismo e del separatismo". Il summit si è dichiarato a favore di un Afghanistan "neutrale” (ossia, senza base permanenti USA), cosa sostenuta anche dal Presidente afgano Hamid Karzai, anche se gli Stati Uniti stanno proprio in questo momento discutendo con lui per un accordo di collaborazione strategica dopo il 2014. l’eventualità di basi militari permanenti in Afghanistan sta alla base delle odierne tensioni tra USA e Pakistan. L’India ha dichiarato la sua avversione alle tensioni di una "nuova guerra fredda" che sono comparse nella regione.

La Russia e la Cina temono che il progetto statunitense sia quello di installare basi permanenti in Afghanistan e di sviluppare i componenti del suo sistema di difesa missilistico. La riunione della SCO ha condiviso le critiche della Russia sul progetto dello scudo missilistico della NATO che si è già avviato in Europa. Questo progetto, voluto da "una nazione o di un piccolo gruppo di paesi che, unilateralmente e senza alcuna restrizione, per sviluppare un sistema antimissile, potrebbe minacciare la stabilità strategica e la sicurezza internazionale ".

(...)

Il rafforzamento della cooperazione e lo sviluppo economico sono state considerate le "due ruote" della SCO dal Segretario Generale, Zhang Deguang. Il Giornale del Popolo cinese ha evidenziato che "tra le altre mosse concrete da intraprendere c’è la costruzione di una ferrovia, di un’autostrada e di una rete di condotte che colleghino i paesi dell’Asia Centrale senza sbocco sul mare e le sue ricche risorse naturali all’economia globale." Al momento, è ancora in costruzione un sistema di condotte per il gas naturale che poi metterà in comunicazione Iran, Pakistan, India e Cina, aiutando a superare i contrasti tra India e Pakistan e a integrare tutta la regione sulle premesse di interessi condivisi, attentamente supervisionati dalla Cina.

L’Asia Centrale e l’Asia del Sud sono inseparabili e le proposte per l’adesione di India e Pakistan sono state a lungo discusse. Il Presidente del Pakistan, Ali Zardari, si è ripromesso di lavorare con i membri della SCO per raggiungere la pace regionale. Zardari ha affermato che il Pakistan fa parte della regione della SCO e che è intenzionato a cooperare con le altre nazioni per finanziare joint venture nel settore energetico, nelle infrastrutture, nell’educazione, nella scienza e la tecnologia. Ha fatto menzione della nuova apertura del porto a Gwadar, a cui la Cina ha destinato molti finanziamenti come di un utile centro di smistamento per tutta la regione.

La SCO ha rafforzato la cooperazione tra i suoi membri, con le esercitazioni di guerra tra Russia e Cina e, all’inizio di aprile di quest’anno, gli incontri dei capi militari dei paesi membri. Comunque, la SCO è ancora lontana dall’essere un’alleanza militarmente coesa come la NATO. L’ammissione del Pakistan e dell’India, nemici di lunga data, complicherà certamente la cooperazione militare, con il protettore dell’India, la Russia, opposto a quello del Pakistan, la Cina.

La Cina è chiaramente la forza che sta alle spalle della SCO, il polmone che nella regione è economicamente molto più importante di quanto non sia la Russia, ma la volontà comune di tenere lontani gli Stati Uniti è per tutti un sogno. Quale modo migliore per alleggerire le tensioni tra tutti questi rivali se non con le esercitazioni della SCO per rafforzare l’interazione tra le forze armate e i corpi legislativi? Secondo l’opinione di M.K. Bhadrakumar, renderà la "NATO (e la Pax Americana) semplicemente irrilevante per un’enorme estensione di territorio ".

(...)
 
Un altro argomento della riunione trattato riguarda il modo di unire gli sforzi nella direzione di una moneta unica mondiale, non creata dai banchieri mondiali agli incontri segreti del Bilderberg, ma in modo aperto dalle nazioni centri più popolose e più ricche di risorse che sono presenti nella SCO. Nazarbayev ha sottolineato il bisogno di una forte moneta sovranazionale e ha raccomandato un ritorno a una qualche forma di gold standard. "La SCO lo può fare. Le operazioni swap che abbiamo avviato sono il primo passo. Tutto ciò è necessario per una cooperazione egualitaria all’interno della SCO."

Il Presidente iraniano, Mahmoud Ahmedinejad, ha dato un po’ di colore al tono dimesso dell’incontro grazie al richiamo rivolto alla SCO di farsi maggiormente carico di un ruolo attivo per contrastare il sistema globale, guidato dagli USA, degli "schiavisti e dei colonizzatori" per poi sostituirlo con uno che sia più giusto. "Chi fra noi [ha avuto un ruolo] nell’età oscura della schiavitù o nella distruzione di centinaia di milioni di esseri umani? Io credo che insieme potremo riformare il modo in cui il mondo è gestito. Potremo restituire la tranquillità al mondo intero."

Il meeting della SCO è arrivato pochi giorni dopo la chiusura della riunione del Gruppo Bilderberg a St. Moritz in Svizzera, a cui quest’anno ha partecipato il Ministro per gli Affari Esteri, Fu Ying, un riconoscimento del fatto che senza l’approvazione della Cina niente è più possibile nel mondo della finanza. Come la SCO, la sua agenda si dice abbia analizzato quali azioni intraprendere in reazione alla Primavera Araba, ma anche, in modo più sinistro, progetti per censurare Internet, chi scegliere perché diventi il nuovo direttore del FMI, gli ulteriori salvataggi dell’euro e i prezzi in crescita del petrolio.

La Cina, la Russia, il Pakistan e l’India, per non far menzione dell’Iran: la SCO riunisce tutte le più serie minacce ai progetti dell’impero in un unico organismo. Ad eccezione forse della Cina, Bush non ha mai preso sul serio nessuno di questi paesi. Obama sì. Ma finora la SCO ha molto abbaiato, ma non ha di certo morso. Se, nel corso di quest’anno, anche l’India e il Pakistan verranno ammessi e se gli swaps denominati non in dollari raggiungeranno una massa critica, il Bilderberg farà bene a mettere la SCO e cosa farne in cima al prossimo ordine del giorno.

di ERIC WALBERG (Global Research)
Fonte: http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=25359
Tratto da: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8504
Traduzione per www.comedonchisciotte.org   a cura di SUPERVICE

Ustica e quei quattro aerei nascosti

Gli indizi portano ai francesi, 31 anni dopo


La vera «bomba» della strage di Ustica sono le tracce radar di quattro aerei militari ancora formalmente «sconosciuti» - due/tre caccia e un Awacs - su cui la Nato, dopo una rogatoria avanzata un anno fa dalla Procura della Repubblica di Roma (con il sostegno operativo ma silenzioso dell'ufficio del consigliere giuridico del capo dello Stato), sta decidendo in questi giorni se apporre le bandierine d'identificazione. Tutti gli indizi portano allo stormo dell'Armée de l'air che nel 1980 operava dalla base corsa di Solenzara. Lo stesso contro cui puntò il dito pubblicamente (poi anche a verbale) Francesco Cossiga. Forse dopo aver saputo che i caccia francesi avevano lasciato le loro impronte su un tabulato del centro radar di Poggio Ballone (Grosseto), miracolosamente non risucchiato dal buco nero che dalla sera dell'esplosione del DC9 Itavia aveva ingoiato nastri, registri e persino la memoria di tanti testimoni.

La questione non è più militare ma ostanzialmente politica. E non solo perché la risposta ai magistrati italiani deve prima ottenere il benestare dei 28 paesi membri dell'Alleanza, nessuno escluso. Il fatto è che, come in un surreale gioco dell'oca, dopo trentun anni gli attori tirati in ballo nella strage (Italia, Francia, Stati Uniti) si ritrovano insieme alla casella di partenza. Alleati in una guerra (stavolta dichiarata) a Gheddafi, vittima designata oggi come allora, e al solito con posizioni tutt'altro che sovrapponibili. In più l'identificazione certa dei caccia francesi non sarebbe cosa facile da digerire nei rapporti bilaterali, visto che Parigi ha sempre negato che il 27 giugno 1980 i suoi aerei fossero in volo nel cielo di Ustica e, persino contro l'evidenza delle prove raccolte dalla magistratura italiana, ha sostenuto che nella base di Solenzara le luci furono spente alle cinque e mezza del pomeriggio. Il 2 ottobre del 1997, il segretario generale della Nato Javier Solana graziò Parigi consegnando al nostro governo la relazione di sei pagine di un team di specialisti dell'Alleanza atlantica che aveva incrociato tutte le tracce radar sopravvissute al buco nero, identificando in una tabella dodici caccia in volo quella sera (americani e britannici) ma evitando di apporre la bandierina su una portaerei e quattro aerei la cui presenza nella zona e all'ora della strage non veniva comunque messa in discussione. Un lavoro ripetuto più e più volte con i sistemi informatici in dotazione alla Difesa aerea dell'Alleanza e definito dagli stessi specialisti Nato senza alcuna possibilità di errore. Però reticente su un unico punto, cruciale: l'identificazione dei caccia francesi.

Ma il radar di Poggio Ballone (Grosseto), all'epoca uno tra i più efficienti, aveva visto che tre di quegli aerei provenivano da Solenzara e a Solenzara erano rientrati dopo l'esplosione del DC9 Itavia. E il quarto - un aereo radar Awacs - era rimasto in volo sopra l'isola d'Elba registrando tutto ciò che era accaduto nel raggio di centinaia di chilometri, quindi anche a Ustica. Sarà un caso che il registro della sala radar con cui si sarebbero potuti incrociare i dati del tabulato non fu trovato durante il sequestro ordinato dal giudice istruttore Rosario Priore e che l'Aeronautica lo consegnò cinque giorni dopo senza il foglio di servizio del 27 giugno 1980? Sarà un caso che Mario Dettori, uno dei controllori, dichiarò a moglie e cognata che si era arrivati «a un passo dalla guerra» e poi fu trovato impiccato a un albero? Sarà un caso che il capitano Maurizio Gari, responsabile del turno in sala radar e perfettamente in salute, sia morto stroncato da un infarto a soli 32 anni? Sarà un caso che i capitani Nutarelli e Naldini, morti anche loro nella disastrosa esibizione delle Frecce tricolori nel 1988 a Ramstein, con il loro TF 104 abbiano incrociato quella sera tra Siena e Firenze il DC9 sotto cui si nascondeva un aereo militare sconosciuto e siano rientrati alla base di Grosseto segnalando per tre volte e in due modi diversi l'allarme massimo come da manuale (codice 73)?

C'è grande fibrillazione intorno a questa perizia della Nato su cui molti hanno cercato inutilmente di mettere le mani, in alcuni casi negandone addirittura l'esistenza. Ma il documento, un macigno sulle parole di chi ha sostenuto che il DC9 sia esploso per una bomba in un cielo deserto, ora è tornato a galla e ha consentito ai magistrati della Procura di Roma di preparare la partita finale di quest'indagine. Cinque rogatorie che potrebbero finalmente rendere giustizia alle 81 vittime di quella strage e di un segreto ancora inconfessabile.
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Tratto da: http://sitoaurora.splinder.com/post/24814677/ustica-e-quei-quattro-aerei-nascosti

lunedì 27 giugno 2011

L’americanizzazione che avanza


Quando ho sentito per la prima volta, l’anno scorso, che le istituzioni stavano organizzando i “150 anni dell’Unità d’Italia”, di prim’acchito ho pensato si trattasse del consueto gorgo in cui far sparire, un bel po’ di soldi pubblici, alla faccia della “crisi”, con l’abituale condimento di retorica insulsa; ma quando quest’anno è scattata l’aggressione militare alla Libia, e Roma, malgrado il Trattato di amicizia e collaborazione con Tripoli (ostentato come un fiore all’occhiello fino al giorno prima), ha subitamente aderito, mi si è chiarito il perché di tanta enfasi su questa “ricorrenza patriottica”…

Siamo in guerra ma non lo si può ammettere, questa è la verità. Siamo in guerra al fianco dell’America e dell’Occidente (non mi stancherò mai di ripetere che si tratta di sinonimi, per indicare la civiltà dell’ateismo e del “regno della quantità”). Ma come ci siamo scivolati in questa situazione che solo vent’anni fa sarebbe stata impresentabile?

La musica è cambiata un po’ per volta, a partire dalla prima Guerra del Golfo (1991): l’Italia che “ripudia la guerra” (art. 11 della Costituzione) è ormai un pallido ricordo, poiché di fatto oggi la sua “classe dirigente” non fa nulla per evitare di finirvi dentro, né di fiancheggiarla o di giustificarla, se a volerla sono i “nostri alleati” (altrimenti è “condanna senza se e senza ma”: mi pare di sentirlo un Frattini che condanna uno “Stato canaglia”!). Abbiamo poi assistito in tutti questi anni post-Urss ad un progressivo protagonismo militare del nostro Paese, dalla partecipazione allo sbarco in Somalia con tanto di riprese in diretta all’ignobile attacco all’ex Jugoslavia, fino alle decine di costosissime “missioni di pace”, dal Libano (dove peraltro c’eravamo già stati nei primi anni Ottanta, ma con altre motivazioni perché non eravamo così impelagati con NATO & soci) all’Iraq, all’Afghanistan, dove – colmo della mistificazione – manderemmo i nostri “scarponi” a far da “sentinelle della democrazia” e della “ricostruzione” (dopo che gli “alleati” hanno volutamente ridotto quella terra a un cumulo di rovine!) .

Per carità, non sono così fesso da pensare che ogni volta l’Italia partecipi entusiasticamente (siamo o non siamo una colonia americana? ad ogni ordine bisogna battere i tacchi! e chi non lo fa è morto); o che nelle recondite pieghe di qualche tentennamento o attacco ai nostri contingenti (v. la famosa “strage di Nassiriyya”) non si nascondano chissà quali “pugnalate alle spalle” da parte di quelli che la propaganda presenta invariabilmente come “amici”. Non sono neppure così ingenuo da ritenere che alla fine un qualche vantaggio, talvolta, vi sia più nello “starci dentro” che nel “rimanere fuori”… Ma con questa giravolta libica – l’ennesima della nostra disonorevole storia nazionale – si rende davvero un’impresa disperata presentare la cosa in termini di “interesse nazionale”.

Infatti non avevamo alcun interesse ad associarci a quest’ennesimo odioso crimine, di cui siamo ragguagliati ancor meno di quanto ci illusero di sapere in occasione delle precedenti “guerre democratiche” degli ultimi vent’anni. Siamo passati da Peter Arnett della CNN e la guerra tipo videogioco sul cielo di Baghdad alla sparizione pura e semplice di ogni notizia, tant’è che la Libia è passata in secondo o terzo piano, messa dopo le trite scaramucce centro-destra e centro-sinistra, le notizie relative ai disastri meteorologici e il periodico caso di cronaca nera sul quale i notiziari indugiano morbosamente con ogni dovizia di particolari sempre più scabrosi e inquietanti. Dell’aggressione alla Libia ci fanno vedere solo e sempre la solita scena dei “ribelli” che al “ciak si gira” dell’operatore televisivo si mettono a sparare a vanvera in aperta campagna… tanto le pallottole le paghiamo noi!

Stavolta hanno deciso che è decisamente meglio non parlarne proprio, così sembrerà che il problema non sussiste. Ed il risultato è assicurato perché la gente, in giro, non alcuna cognizione del fatto che a pochi chilometri noi anche i “nostri ragazzi” sganciano bombe addosso a persone che non ci hanno fatto alcun male, né avevano minacciato di farcene.

La vergogna è troppo grossa per andare in giro orgogliosi di questo ‘capolavoro’. E cosa di meglio, per velare questo scempio, della retorica patriottica per i “150 anni dell’Unità d’Italia”? Ecco che ogni occasione è buona per propinarci l’eroismo dei “nostri ragazzi” e l’efficienza delle nostre Forze Armate, coi balconi di alcune città-simbolo della pretestuosa ricorrenza – Torino su tutte – addobbati fino all’inverosimile col tricolore, come neppure s’era visto per la vittoria ai mondiali di calcio! (...)


di Enrico Galoppini (Articolo completo su European Phoenix)

Bahrein. La repressione censurata di Manama


In questi giorni i media occidentali non fanno altro che riportare senza sosta le notizie, mai supportate da prove valide, della presunta repressione che il “regime” siriano di Bashar al Assad starebbe compiendo nei confronti dei dissidenti anti-governativi. Una repressione che, come da manuale, comprenderebbe anche rastrellamenti e arresti indiscriminati. Giornali telegiornali agenzie e quant’altro sono così impegnati a diffondere informazioni fasulle riferite da qualche anonimo della rete che sembrano non accorgersi di quanto gli accade veramente intorno.

Succede infatti che, mentre il “tiranno siriano” concede un amnistia generale e rimette in libertà anche i presunti attivisti incarcerati ingiustamente, il Bahrein nell’indifferenza generale emetta al contrario pesanti condanne contro alcuni dei leader dei movimenti di opposizione che nei giorni scorsi hanno manifestato contro la dinastia sunnita che governa il piccolo regno del Golfo. Ergastolo a otto dimostranti sciiti e pene che vanno dai due ai 15 anni di carcere per altri 13 oppositori, tutti accusati di aver ordito un “complotto in favore di un colpo di Stato”. Eppure la notizia non ha trovato spazio sui media occidentali e tantomeno su quelli italiani, che hanno invece preferito dare spazio a notizie come “Da stagista della Clinton a pornostar, il caso di Sammie scuote la politica Usa”, oppure “Lo United e il sesso. Ingaggiato un prete che dà lezioni di morale sessuale”.

E pensare che a dare per prima la notizia è stata proprio un’agenzia europea, la britannica Reuters, la stessa che un mese fa in mancanza di immagini che testimoniassero le presunte violenze in Siria decise di utilizzare video di repertorio riguardanti invece le rivolte in Egitto. Le immagini fecero il giro del mondo, le successive e dovute scuse dell’agenzia per il falso invece no. Ragionando per assurdo potrebbe darsi quindi che le grandi testate internazionali, visti i precedenti, non tengano più in considerazione la Reuters, ormai più affidabile. Tuttavia se così fosse, non avrebbero però potuto ignorare la conferma ufficiale data poco dopo dallo stesso governo del Bahrein. La realtà è, infatti, peggiore di qualsiasi insensata supposizione: c’è una volontà chiara, da parte dei governi occidentali prima e dei media “embedded” poi, di non riportare le notizie delle proteste e delle repressioni, seppur supportate da video e foto, che si verificano nei Paesi alleati degli Stati Uniti. D’altronde sarebbe sconveniente per questi ultimi dover infliggere sanzioni ai propri maggiori partner commerciali nella regione vicino-orientale. Per fortuna, e forse purtroppo, non basterà il silenzio dell’Occidente a far placare le dimostrazioni di piazza in Bahrein, secondo l’emittente qatariota al Arabiya, infatti, le sentenze emesse potrebbero infiammare ulteriormente le tensioni esistenti e quelle che sono ancora latenti nel piccolo stato del Golfo e in quelli vicini.

di Matteo Bernabei (m.bernabei@rinascita.eu)

sabato 25 giugno 2011

Liberi con una “x”. Adesso avremo un futuro senza incognite...


Finalmente liberi! Il consenso popolare, tanto reclamizzato e auspicato, ha liberato, nell’anno 2011, il popolo italiano da ogni forma di schiavitù; il referendum è stato il mezzo con il quale esprimere la dirompente sovranità popolare. Un popolo finalmente scevro, libero di scegliere la dipenden… oops, la provenienza delle fonti energetiche, di poterne disporre in modo autonomo senza alcun ricatto o vincolo di subordinazione con i Paesi fornitori.

Uno Stato libero di gestire la propria acqua (questo sì, auspicabile, che, in una nazione davvero sovrana, dovrebbe essere quasi un assioma) ma fino a quando? Sino alla prossima legge (Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, ne aveva già pronta una, prima del decreto dell’ex ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi) che ne disporrà la gestione privata contraddicendo, come è usuale, il risultato referendario. Questione di tempo per quietare le coscienze e poi, ciò che non è entrato dalla porta, s’insinuerà dalla finestra, purtroppo.

Non pochi, infatti, gli esiti, disattesi, dei referendum: sulla responsabilità civile dei magistrati; sul finanziamento pubblico dei partiti riciclato come rimborso elettorale; sull’abrogazione del ministero dell’Agricoltura (ricomparso, dopo una serie di cambi di denominazione, come dicastero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali) e quello del Turismo, al punto di far demoralizzare gli elettori e ritenere la consultazione come un mero sondaggio d’opinione.

Il popolo italiano, in ogni caso, è ora libero dal pericolo nucleare; suvvia per le centrali francesi e svizzere e slovene ai confini, sono ben poca cosa, lo stesso vale per tutti gli ordigni atomici bellici sparsi sul territorio della Penisola ma ignorati dai media. Se l’indignazione popolare e mediatica non è montata per quest’ultimo “particolare”, significa che non ci sono rischi…

Liberi da paure orbene, ma schiavi di tutta quella redditizia psicosi che annulla le coscienze e che si rinnova in continuazione, per ultimo il previsto terremoto distruttivo a Roma e la diffusione del batterio killer dalla Germania. Anzi, ex schiavi, visto il trionfo referendario: in molti hanno definito il risultato “clamoroso”, un 57% di affluenza mostrato come un plebiscito, un’adesione di massa.

Mai macchina elettoral/referendaria si è mossa in modo così granitico e aggirante: dalla radio, alla tv, ai giornali, ai social forum, ai milioni di messaggi di posta elettronica, a chi in spiaggia “spingeva” i bagnanti ad andare al seggio o chi, nei luoghi di lavoro, pressava i colleghi a salvarci dal nucleare. Nel 1974, in occasione del referendum sul divorzio, ci fu grande movimento, ma i quesiti del 2011 sono stati supportati con una “veemenza” digitale e informatica nuova, senza precedenti.

Le piazze più importanti d’Italia le abbiamo viste zeppe di cittadini festanti, per il raggiungimento di quest’altro pezzo di libertà e democrazia da aggiungere ai tasselli già esistenti, ricordati e celebrati nel recente centocinquantenario. Italia liberata dagli Usa, Italia perno nella Nato e nell’Onu, esportatrice di pace in Asia e in Libia (nel 1999 in Serbia), per decisioni autonome e in piena condivisione con la collettività che sarebbe scesa in piazza, altrimenti, per frenare il tutto. Pensare che quei “dittatori” di Mattei, Moro e Craxi stavano rovinando tutto…

Italia dunque autonoma a livello interno e internazionale, libera di dissentire dal fedele alleato d’oltreoceano.

Siamo liberi e tutto è stato possibile soltanto apponendo una X, incredibile ma vero! I patrioti risorgimentali e i soldati che difesero l’Italia nelle guerre mondiali non crederebbero ai loro occhi. Un’Italia libera dal condizionamento dell’informazione, poggiante su una rosa variegata di fonti, tutte in grado di esprimersi e di ricevere lo spazio mediatico necessario. Una nazione emancipata e non tarpata dai boicottaggi informativi, dai silenzi mediatici e dalla concentrazione dei mezzi d’informazione. La stessa collettività festante per la liberazione dal nucleare ritiene opportuno, di norma, non indignarsi perché una testata minore, o politicamente scorretta, possa non esprimere le proprie opinioni.

La nuova libertà italiana, frutto di “spallate”, flash mob e web, è ancor più generale di quanto si pensi. Come non dimenticare, infatti, la libertà di voto e di peregrinazione dello stesso: la scelta in cabina premia un candidato e questi, nel tempo, vaga da un polo all’altro, da maggioranza a opposizione e viceversa.

L’Italia è libera, per tutti, dagli autoctoni a quelli che sono fuggiti dai loro Paesi non solo per questioni economiche ma anche di restrizione fisica, vigendo, negli Stati natii, una legislazione più ferrea e poco aggirabile.

Fa piacere vedere di nuovo le masse in piazza perché ebbre per i diritti, la propria salute e il proprio futuro; folle sradicate dalle loro inezie del quotidiano (qualcuno ha osato affermare che il popolo sia anche schiavo di videopoker, lotterie e bingo..). Masse meno attive in caso di missioni italiane all’estero o per i licenziamenti sul suolo patrio, ma col coltello fra i denti per le X sulle schede in cabina. Un popolo non più schiavo della tecnologia e del cellulare, ma in grado di piegare tali mezzi per lo scopo finale: per la pubblicità dei 4 sì; in barba a chi lo definiva “drogato” e “imbelle”.

Il panem è libero e lo è anche il circenses: per cui il telespettatore, padrone del proprio destino, può tranquillamente optare per i reality, la telenovela o il calcio.

Non più schiavi delle comodità (tra cui l’automobile, il cellulare e Facebook in cui primeggiamo, con “onore”, al mondo), ma un popolo coeso, cosciente dei propri ideali, che si è ripreso in mano il futuro, che boicotterà alle prossime elezioni i grandi partiti colpevoli del degrado totale.

La “maestosa” affluenza (ormai prossima alla metà degli aventi diritto, se si considerano anche le schede nulle e quelle bianche) alle urne durante le elezioni beneficia, numericamente, del voto di scambio e dei voti venduti dietro compenso. Il referendum no, lascia il voto invendibile e invenduto.

Strumento magico quello del referendum e non si tenti di criticare tale diritto del popolo, nessuno osi pugnare per l’astensione (ma non siamo anche liberi di non votare?) e a niuno salti in mente di affermare che si tratti soltanto di un contentino per far credere al peso e al volere del volgo, salvo ingabbiarlo con acute strategie sotterranee o, più semplicemente, con leggi successive.

Da non dimenticare quanto salvifici siano stati i referendum della Fiat, in cui la genuina adesione dei lavoratori ha permesso all’amministratore delegato, Sergio Marchionne, di pianificare meglio il futuro per salvare l’azienda e i lavoratori. Anche in questo caso, dunque, la salvezza è giunta attraverso un quesito referendario. Vuoi vedere che a forza di quesiti e di sì rischiamo di diventare lo Stato più libero e democratico al mondo, più della terra del nobel Obama (che trabocca di questi ideali sino a doverli esportare)?

L’azione (e la voce) dei media e del popolo della Rete è stata minore (quantomeno circostanziata) in occasione del referendum del 2008 (bocciato dal Consiglio di Stato) a Vicenza, per evitare la costruzione della nuova base Usa sul suolo dell’ex aeroporto civile Dal Molin. Il silenzio mediatico sulla questione è stato, sicuramente, una banale distrazione in buonafede.

L’ottimismo del trionfo storico, epocale (qualcuno ha definito davvero così, gli ultimi appuntamenti al seggio), sarà il volano per la riduzione della forbice sociale, della sperequazione fiscale e per la piena autonomia del Paese.

Giammai l’attivo e cosciente popolo italico si farebbe prendere per il naso da preferenze e quesiti che qualcuno si ostina a definire inutili, già decisi a tavolino (e a posteriori) dai nostri amministratori.

di Marco Managò
Tratto da: Rinascita 

venerdì 24 giugno 2011

Verso nuovi equilibri/squilibri


I disordini a orologeria che stanno mettendo alla prova la capacità gestionale del presidente Bashar Al Assad e dimostrando comunque, giorno dopo giorno, l'effettivo radicamento popolare del Baath suffragano inoppugnabilmente la tesi secondo cui il governo di Damasco sia entrato definitivamente nel mirino dei "soliti noti".

Bollata dagli Stati Uniti come "stato canaglia" in ragione dell'alleanza di ferro stretta con la Russia e minacciata costantemente da Israele in virtù della sua vicinanza con fazioni autonomiste invise a Tel Aviv come Hamas ed Hezbollah, la Siria si ritrova attualmente a fungere da scenario di un conflitto interno a bassa intensità in cui le forze dell'ordine comandate da Assad stanno avendo la meglio su oscure fazioni ostili che godono dell'appoggio incondizionato di famigerate emittenti arabe (Al Jazeera in primis) intente a sezionare manicheamente la realtà e a presentare i membri armati delle frange antigovernative come "dissidenti" da iscrivere nel novero dei "buoni" vessati e repressi mediante efferati "bagni di sangue" scatenati dalle forze armate comandate dai "cattivi" vertici del Baath.

Le solite Organizzazioni Non Governative, i bilanci di gran parte delle quali dipendono direttamente dai fondi erogati dal Congresso degli Stati Uniti o dalla Casa Bianca (e da altre nazioni occidentali), sono fortemente coinvolte nella maestosa opera propagandistica di distorsione della realtà ai fini strumentali di destabilizzazione del paese e gli organi di informazione occidentali prendono regolarmente per oro colato le versioni palesemente unilaterali dei fatti rese da ignoti "blogger" su social network di massa come Facebook e Twitter.

Dietro lo spesso sipario di menzogne colossali calato sulla vicenda si cela una realtà ben diversa, che vede una nomenklatura alawita tenere in pugno il potere in un paese formato da una costellazione di gruppi etnici e religiosi che evidentemente non vivono in armonica e felice compenetrazione, ma che appoggiano più o meno calorosamente il regime Baath, che a sua volta ha tenuto conto delle esigenze di tutti (cristiani, musulmani, drusi) e si è fatto garante della laicità dello Stato, ha affermato l'autonomia nazionale e ha funto da freno ("katechon") alle brame imperiali dei vicini (Israele) e dei loro storici mentori (Stati Uniti).

La tenuta di Assad ha visibilmente scompaginato i piani delle potenze occidentali, che sono corse ai ripari disponendo (misura adottata dall'Unione Europea) l'embargo sulla fornitura di armi e una serie di misure restrittive in ambito finanziario a carico di numerosi vertici del governo di Damasco. Occorre prestare grande attenzione a ciò che accadrà nell'arco delle prossime settimane in Siria, in quanto gli sviluppi relativi al complesso scenario del Vicino e Medio Oriente nel futuro prossimo dipenderanno in larga misura dalla piega che prenderanno gli eventi in Siria.

Al momento, l'alleanza con la Russia (confermata persino dall'ambiguo Dmitri Medvedev) pare sufficientemente solida per evitare che le attenzioni delle potenze occidentali verso la Siria assumano fattezze affini a quelle mostrate nei confronti della Libia. Il che significa che il governo di Damasco potrà godere di un ampio margine di manovra per reprimere efficacemente i disordini in tempi relativamente brevi. Se riuscirà ad avere la meglio sui rivoltosi, Assad uscirà indubbiamente rafforzato dalla bagarre.

Ciò ha evidentemente destato forti preoccupazioni a Washington e spinto gli Stati Uniti ad uscire definitivamente allo scoperto. Non a caso Hillary Clinton ha dichiarato che "Ogni giorno che passa la posizione del governo siriano diventa meno difendibile e le esigenze di cambiamento del popolo siriano non fanno altro che rafforzarsi".

Ancor più allarmato dal profilarsi della possibilità che il Baath siriano acquisti maggior peso politico è apparso il governo di Tel Aviv, il cui viceministro Ayub Al Qara ha ammesso di aver ricevuto cinque leaders delle frange antigovernative siriane promettendo loro appoggio incondizionato a livello internazionale.

E' probabile quindi che gli scontri si acuiranno (non a caso la responsabilità dell'attentato contro i soldati italiani in Libano è stata regolarmente fatta ricadere sulla Siria, mediante i soliti "avrebbe" e "si dice", esattamente come accadde nel 1982 in occasione dell'attentato che costò la vita a Bashir Gemayel e che provocò la spaventosa ritorsione israelo - falangista contro i profughi palestinesi stanziati a Chabra e Chatila) e la tensione subirà un ulteriore innalzamento, gli Stati Uniti chiameranno a raccolta i propri "alleati" per esercitare pressioni internazionali - specie in sede ONU - fortissime sulla Russia, che sarà chiamata a recidere definitivamente i nodi gordiani legati al dualismo Putin - Medvedev e scegliere, di conseguenza, la via da percorrere. Gli USA riconosceranno Medvedev come interlocutore, il quale non potrà tuttavia tagliar fuori dalla discussione un animale politico dello spessore di Vladimir Putin.

Se prevarrà la linea della fermezza la Siria non sarà oggetto di alcuna azione "umanitaria" e Assad rimarrà saldamente in sella, se verrà adottato un atteggiamento passivo affine a quello tenuto nei confronti della Libia l'orda dei "volenterosi" si sentirà legittimata ad alzare ancora una volta il tiro. La caduta di Assad preluderà al disfacimento del Baath, i cui equilibrismi hanno sventato lo spettro di una guerra civile intertribale affine a quella scoppiata in Iraq dopo il rovesciamento di Saddam Hussein (capo del Baath iracheno, non a caso). Nel caso in cui quest'ultima possibilità si concretizzi, i disordini si sposteranno verso est e coinvolgeranno quello che è un obiettivo primario per le amministrazioni USA e per i loro alleati israeliani, ovvero l'Iran.

Così come quello russo, anche il governo di Teheran appare lacerato da scontri al vertice tra la fazione dei laici al seguito del presidente laico Mahmoud Ahmadinejad e quella degli Ayatollah capeggiati dalla Guida Suprema Ali Khamenei, cosa che porta acqua al mulino di quanti ritengono che gli echi della rivoluzione colorata dell'estate 2009 non siano ancora svaniti e che il progetto di destabilizzazione dell'Iran sia tutt'ora in atto. Come è noto, il principale capo di accusa a carico dell'Iran riguarda la linea politica adottata dal governo di Teheran relativa allo sviluppo dell'energia nucleare per fini non strettamente civili. La situazione, nel caso specifico, supera (e di molto) il paradossale. Esistono attualmente otto paesi - Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Pakistan, India, Israele - in possesso di testate nucleari che o si sono rifiutati (Stati Uniti, Israele, India, Pakistan) di ratificare il Trattato di Non Proliferazione (TPN) o l'hanno ratificato (tutti i rimanenti) ma ne ignorano beatamente i vincoli.

Con la sottoscrizione del trattato in questione, i paesi firmatari che detengono arsenali nucleari si impegnano a non cedere ad altri le proprie testate (articolo 1) e quelli che ne sono sprovvisti a non acquistarne e a non fabbricarne (articolo 2), mettendo nel contempo i propri siti a disposizione dei membri dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) incaricati di ispezionare e accertarsi che l'energia atomica prodotta sia destinata a fini civili e non militari (articolo 3). Il Trattato prevede anche che gli stati firmatari si impegnino "A perseguire negoziati in buona fede su effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare, e su un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo sotto stretto controllo internazionale" (articolo 6).

Malgrado le alte finalità dichiarate con la ratifica del Trattato, il novero dei paesi firmatati in possesso di arsenali nucleari stanno esercitando fortissime pressioni internazionali a corrente alternata e geometria variabile, chiudendo gli occhi sull'operato degli alleati interessati ad affermarsi al rango di potenze nucleari e agitando, di converso, i vincoli del trattato solo ed esclusivamente contro i nemici. In un contesto in cui lo status di potenza nucleare è sinonimo o quantomeno garanzia di autonomia decisionale, è ovvio e normale che i paesi che non rispondono ad esso facciano il possibile per attrezzarsi in tal senso. Il compito degli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica risulta effettivamente difficile e ingrato, per via dell'anarchia che vige a livello internazionale, per la mancanza di un'istituzione al di sopra delle parti in grado a garantire che i vincoli del trattato vengano effettivamente rispettati e per la l'inesistenza di un limite netto che consenta di distinguere con sufficiente certezza uso civile da uso militare all'interno del ciclo dell'uranio sottoposto ad ispezione. Il materiale fissile è inoltre piuttosto abbondante, e all'incontrollabilità dei paesi che il trattato non l'hanno firmato si somma il vasto mercato clandestino che si occupa di smerciare sottobanco uranio sottratto dai depositi militari delle repubbliche ex sovietiche.

Quando poi "rivenditori" non autorizzati come il fisico pachistano Abdul Qadeer Khan o l'ingegnere sudafricano Johan Meyer vengono colti in flagrante la linea comunemente adottata dai loro paesi è quella improntata a "comprensione e tolleranza". Curioso, per usare un palese eufemismo, che in un contesto in cui il mercato nero di materiale nucleare sia oggetto di sostanziale noncuranza siano maturate le condizioni per costruire prove ad hoc al fine di condannare senza appello Saddam Hussein per essersi tacitamente dotato di armi atomiche suscitando un'isteria di massa in seno alla solita società statunitense (storicamente in grado di bersi le più colossali idiozie) che ha istantaneamente benedetto i vessilli di George Bush intento a guidare i propri crociati alla volta di Bagdad.

La Corea del Nord ha dimostrato di aver tratto i debiti insegnamenti dalla vicenda. Il governo di Pyongyang, una volta preso atto del fatto che l'aggressione statunitense all'Iraq era avvenuta malgrado Saddam Hussein avesse accettato di sottoporre ad ispezione i propri siti e nonostante non fosse stata rinvenuta l'ombra delle famigerate "armi di distruzione di massa", ha immediatamente deciso di ritirare il paese dal Trattato di Non Proliferazione (2003) e velocizzare i lavori per la fabbricazione di alcune testate nucleari, la cui ultimazione è stata poi ammessa nel corso di un discorso ufficiale pronunciato il 10 febbraio 2005. Il "caro leader" Kim Jong Il sarà sicuramente giunto alla conclusione che dal momento che un'accusa mossa in assenza di qualsiasi prova autentica a supporto si era rivelata condizione sufficiente per giustificare un'aggressione, tanto valeva dotarsi effettivamente dell'atomica quale strumento effettivo di deterrenza.

L'Iran si colloca invece nel solco dei paesi che non dispongono di alcun arsenale nucleare, ma sono accusati di lavorare in segreto per dotarsi di esso. E viene chiamato sul banco degli imputati principalmente dagli Stati Uniti, che in passato non avevano esitato a rifornire di uranio lo Shah Reza Pahlavi quando ancora l'Iran si chiamava Persia. Nel 1974 la Persia firmataria del Trattato di Non Proliferazione e detentrice di cospicui quantitativi di uranio fornitogli dagli Stati Uniti affidò la costruzione di due impianti nucleari presso Bushehr alla Siemens, che però interruppe i lavori nel 1979, in coincidenza con il putsch ai danni di Reza Pahlevi e alla simmetrica ascesa dell'Ayatollah Rhuollah Khomeini. Successivamente gli impianti subirono forti danneggiamenti causati dai raid aerei dell'aviazione irachena effettuati nell'ambito della sanguinosa guerra Iran - Iraq fomentata dalle potenze occidentali che poi non esitarono a trarre i debiti benefici rimpinzando di armi entrambe le fazioni in conflitto.

Conclusa la guerra, il governo di Teheran propose alla Siemens di completare il lavoro, ma la società tedesca declinò la proposta a causa delle forti pressioni statunitensi. L'Iran volse allora il proprio sguardo verso Mosca, riuscendo a concludere un contratto con la Russia nel 1995 per la costruzione di due reattori. Da allora le accuse di Washington si sono fatte sempre più vibranti, malgrado gli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica non abbiano riscontrato alcuna violazione del Trattato di Non Proliferazione da parte dell'Iran.

Vladimir Putin, responsabile principale della rinascita russa ignorò i reiterati moniti statunitensi girando tecniche di costruzione all'Iran per l'ultimazione dell'impianto di Bushehr e soprattutto sottoscrivendo, il 27 febbraio 2005, un accordo con il governo Teheran mediante il quale la Russia si impegnava a fornire materiale nucleare e a ritirare le scorie di risulta dal ciclo dell'uranio, sobbarcandosi in tal modo l'onere di monitorare la situazione impedendo che l'Iran potesse produrre plutonio.

Parallelamente, sull'altra sponda energetica, anche la Cina non ha esitato a raccogliere il guanto di sfida lanciato dagli Stati Uniti stipulando, nell'ottobre del 2004, un accordo con cui il governo di Pechino si addossava il compito di sviluppare il giacimento petrolifero di Yadavaran e si impegnava a versare l'esorbitante cifra di 70 miliardi di dollari nelle casse iraniane in cambio di costanti forniture di petrolio e gas liquefatto nell'arco di trent'anni dalla sottoscrizione.

Tali successi diplomatici, cui va sommato il progetto di costruzione del corridoio energetico che, articolandosi lungo il territorio pachistano, consentirebbe l'afflusso del gas iraniano ai terminali indiani, hanno conferito un peso indubbiamente maggiore all'Iran nell'ambito del mercato energetico internazionale, al punto da spingere il governo di Teheran di gettare la basi per la formazione di una Borsa petrolifera in grado di mettere in scacco il predominio indiscusso di quelle di Londra e New York.

Un Iran affermatosi al rango di potenza oligarca all'interno del mercato energetico internazionale, forte dell'alleanza con due grandi potenze in ascesa come Russia e Cina e quindi coperto abbastanza per ultimare il processo di arricchimento dell'uranio che potrebbe ipoteticamente preludere alla costruzione del temutissimo arsenale nucleare è una prospettiva inaccettabile per gli Stati Uniti, che infatti non hanno mai nascosto in questi ultimi anni l'intenzione di bissare il prodigio iracheno scatenando una seconda "guerra preventiva" contro l'Iran.

Israele, dal canto suo, funge regolarmente da cassa di risonanza alla propaganda anti iraniana propugnata dagli Stati Uniti, non esitando - in ragione della presunta aura di sacralità che avvolgerebbe i suoi rappresentanti di fronte ai quali i governanti europei danno regolarmente esempio della propria insignificanza - a arroccarsi su una posizione assolutamente indifendibile. l'Iran, che ha sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione e accetta le ispezioni dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, è oggetto di accuse e minacce mosse da Israele, che oltre a non aderire ad alcun trattato e a respingere al mittente ogni invito a sottoporre ad ispezione i propri impianti, è l'unica potenza a disporre di un arsenale atomico nella vasta area del Vicino e Medio Oriente.

La rivista militare "Jane's" stima che l'arsenale nucleare israeliano sia costituito da più di 300 testate, la cui potenza ammonterebbe a circa 50 megatoni. Tra i vettori strategici in dotazione alle forze armate israeliane si contano circa 350 tra velivoli "F - 151 Ra'am" e "F - 161 Sufa" in grado di trasportare un numero massimo di 20 missili nucleari "Popeye II" cadauno, e tre sottomarini "Dolphin" costruiti nei cantieri tedeschi appositamente per Israele, i quali pesano quasi 2000 tonnellate e dispongono di sei tubi lanciasiluri da 533 millimetri perfettamente conformi ai siluri nucleari da crociera "Popeye Turbo", la cui gittata è compresa tra i 250 e i 350 km e il cui fine è quello di garantire una "riserva" missilistica da utilizzare nel caso in cui l'arsenale nucleare di terra venisse distrutto parzialmente o interamente da un attacco a sorpresa. Ai missili classe "Popeye" vanno poi sommati quelli balistici "Jericho II", installati su rampe di lancio mobili e in grado di raggiungere obiettivi stanziati fino a 3000 km di distanza, e i razzi a lunga gittata "Shavit".

E' facendo ricorso a questa tipologia di testate che l'aviazione israeliana ha effettuato con successo il raid del 7 giugno 1981 mediante il quale è stato distrutto il reattore iracheno di Tammuz - 1. Ed è il fatto che armamenti simili siano tutt’ora disponibili a colorare di tinte fosche la situazione attuale. E’ acclarata infatti l'esistenza di piani militari orchestrati congiuntamente da Israele e Stati Uniti, finalizzati a distruggere i siti nucleari iraniani e comprendenti anche disposizioni pratiche - nel cui novero è certamente iscritta l'attivazione dell'arsenale nucleare israeliano - da mettere in atto nel caso (assodato) di ritorsione dell'Iran. Lo scopo del piano è lo stesso: evitare preliminarmente che maturino le condizioni necessarie affinché un qualsiasi paese non allineato si doti di un arsenale nucleare.

Non a caso l'approvazione del trattato "New Start" sul disarmo nucleare (Praga, 8 aprile 2010) mediante il quale Obama si è guadagnato la beatificazione mediatica da un lato ha sancito l'impegno di Russia e Stati Uniti a ridurre progressivamente alla modica cifra di 1550 le testate nucleari dispiegate (ovvero quelle installate su bombardieri strategici e su missili balistici) dall'altro ha tenuto fuori dalle trattative i veri "pomi della discordia", che riguardano l'effettiva proliferazione nucleare e l'ultimazione dello Scudo Antimissile.

In sostanza, la riduzione degli arsenali (assai insignificante, peraltro) è servita da foglia di fico "nobilitante" dietro la quale si cela l'intenzione degli Stati Uniti di rafforzare gli arsenali atomici dei paesi alleati e di estendere lo Scudo Antimissile ai limiti orientali dell'Europa, coincidenti con i confini russi. Così, mentre Iran e Corea del Nord vengono costantemente esposte alla pubblica esecrazione e continuano ad essere oggetto di minacce, Obama si è premurato di collocarsi nel solco tracciato a suo tempo da Bush (che aveva stipulato nel 2008 un trattato con Nuova Delhi per la fornitura di materiale nucleare) intavolando, a ridosso del “Nuclear Security Summit” di Washington del 12 - 13 aprile 2010, le trattative con il primo ministro indiano che hanno portato alla sottoscrizione di un accordo in base al quale gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire materiale fissile "spento" da cui l'India potrà estrarre sia uranio arricchito sia plutonio, da destinare sia a scopi civili che militari.

In compenso, l'India ha accettato poi di aderire "parzialmente" al Trattato di Non Proliferazione riconoscendo giurisdizione agli ispettori dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica su quattordici impianti civili e negandogliela per altri otto. Il Pakistan, il cui rappresentante era presente al vertice di Washington del 2010, non è stato certo a guardare e ha infatti proceduto alla costruzione di tre nuove centrali destinate alla produzione di testate atomiche di ultima generazione. Il fatto stesso che al tavolo del “Nuclear Security Summit” sedessero i rappresentanti di paesi dotati di arsenali atomici e non firmatari Del Trattato di Non Proliferazione quali Israele, India e Pakistan ma non quello dell'Iran, che il trattato l'ha sottoscritto, accetta le ispezioni e il nucleare militare non l'ha sviluppato, risulta assolutamente paradigmatico; la legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta.

Diverso è invece il discorso riguardante lo Scudo Antimissili. Dal momento che garantisce a chi ne entra in possesso la possibilità di sferrare il primo colpo (first strike) senza incorrere nelle devastazioni causate dalla ritorsione di chi subisce l'attacco, lo Scudo Antimissile non può essere assolutamente considerato uno strumento di difesa, ma di offesa. Ciò ha allarmato fortemente la Russia, che per bocca del generale Nikolai Makarov ha chiarito che il proseguimento, da parte degli Stati Uniti, dei lavori finalizzati alla costruzione dello Scudo "Porterà inevitabilmente a una nuova fase della corsa agli armamenti, minando l’essenza stessa del trattato sulla riduzione della armi nucleari". Il medesimo concetto espresso con franchezza da Makarov è stato poi ripreso dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov che, a pochi giorni dal vertice di Praga contestuale al Trattato "Start 2", ha intimato che "Mosca si riserva il diritto di ritirarsi dal nuovo Start se lo scudo antimissile che gli Usa vogliono costruire avrà un impatto eccessivo sull’efficacia delle forze nucleari strategiche russe".

E’ precisamente in ragione della sfacciata aggressività statunitense e in risposta alle orecchie da mercante fatte da Barack Obama - che si dimostra ogni giorno di più il naturale successore di George Bush - di fronte ai reiterati moniti a interrompere l’attuazione del programma “ABM” (Anti Ballistic Missile) comprendente lo Scudo Antimissile che la Russia ha ripreso il progetto “ICBM” (Inter Continental Ballistic Missiles). Lo sviluppo di tale progetto ha permesso alla Russia di arricchire i propri arsenali di un cospicuo numero di missili balistici intercontinentali a propellente solido “SS – 27 Topol M” che, dotati di testata nucleare e con una gittata di 10000 km, sono montabili su autoveicoli in movimento e quindi in grado di perforare gli odierni sistemi di difesa antimissile. La tipologia di missile in questione è stata inoltre soggetta a progetti di ammodernamento, che hanno preluso e portato alla costruzione dei missili balistici intercontinentali RS – 24, dotati di testata nucleare e attrezzati per colpire bersagli situati a 6500 km di distanza. La flotta russa dispone anche di sottomarini “Akula” in grado di trasportare venti missili balistici con 10000 km di gittata dotati di dieci testate nucleari cadauno. Esso risulta particolarmente pericoloso in virtù della sua silenziosità e della possibilità che offre di lanciare i propri missili da una profondità tale da renderne difficile l’individuazione. Esistono inoltre numerosi progetti che consentiranno al governo di Mosca di disporre di armamenti nucleari ancor più sofisticati nell’arco dei prossimi anni a venire.

In conclusione, le sommosse palesemente eterodirette che stanno scuotendo la Siria rientrano nel più ampio confronto tra paesi destinati ad assurgere al rango di potenze nel contesto multipolare che va attualmente (pur non senza battute d’arresto) delineandosi e sono evidentemente al centro di una fitta rete di interessi in aperta opposizione tra loro. Se la Russia saprà far valere i propri, sbarrando la strada alle potenze atlantiche e rinsaldando l’alleanza con il governo di Damasco, la Cina si sentirà incoraggiata ad entrare attivamente in gioco, Assad riprenderà il totale controllo della situazione in tempi brevi e verranno meno le condizioni per un espansione dei “moti popolari” verso l’Iran, che potrà perseguire .

Se invece, in caso contrario, le lacerazioni di vertice tra Putin e Medvedev (e tra i loro rispettivi schieramenti) inchioderanno il governo di Mosca ad una passività affine a quella mostrata in sede ONU in occasione del voto relativo all’approvazione della risoluzione 1973 contro la Libia, la Russia perderà una volta per tutte la propria capacità dissuasoria, la Cina si ritirerà nel suo abituale opportunismo, l’asse atlantico prenderà in mano le redini della situazione e si spalancheranno le porte per ulteriori interventi “umanitari” da muovere, nel giubilo di Israele, presumibilmente contro Siria ed Iran, che potrà dire definitivamente addio ai propri aneliti autonomisti. Lo Scudo Antimissile verrà ultimato e gli Stati Uniti si saranno così garantiti un enorme margine di vantaggio sui propri avversari. La Russia si trova quindi a fronteggiare una sfida cruciale. Il banco di prova siriano emetterà un verdetto inappellabile.