Nell'articolo “Come guidare il default italiano” (“Il Manifesto”, 5 ottobre, vedi http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6894-come-guidare-il-default-italiano.html) Guido Viale svolge considerazioni molto utili per comprendere lo stato attuale della crisi e le possibili vie di uscita. Spiega infatti che il default italiano è un processo già in corso, e che quindi il nostro Paese deve scegliere fra una gestione dello stato di insolvenza simile a quello della Grecia (cioè pilotata dalle istituzioni internazionali, e finalizzato alla spoliazione del paese) e una gestione del default tale da difendere gli interessi del popolo italiano, finalizzata alla conversione ecologica della struttura produttiva del paese.
Questa considerazione, così come molte altre contenute nell'articolo, ci trova d'accordo.
C'è un unico punto di dissenso che vorremo discutere. Viale si chiede se il default dell'Italia porterà inevitabilmente al crollo dell'Euro, e sostiene che la dissoluzione della moneta unica getterebbe l'Europa in un caos peggiore di quello causato dall'attuale crisi, perché i vantaggi determinati dalla svalutazione delle monete dei Paesi deboli potrebbero non essere sufficienti a rilanciarne la competitività.
Pensando all'Italia, per esempio, Viale scrive che “non è detto che il ritorno a una moneta nazionale comporti, per lo Stato in default, un recupero di competitività con una svalutazione e il ritorno a una bilancia dei pagamenti in equilibrio. Se il tessuto produttivo non c'è, o è inadeguato, la svalutazione non basta per togliere quote di mercato ai più forti in campo tecnologico e amministrativo”.
Viale quindi riconosce che all'interno dell'area Euro vi sono squilibri di competitività che minano la tenuta della moneta unica, ma ritiene che il ritorno ad una moneta nazionale, e la successiva svalutazione, potrebbero non essere medicine sufficienti. La nostra critica sta nel fatto che anche dalle stesse considerazioni di Viale si evince che queste medicine sono comunque necessarie. Potrebbero forse non essere sufficienti per la guarigione, ma certamente, senza di esse, la malattia sarebbe ben peggiore.
Dato che la nostra produzione è meno competitiva di quella, per esempio, della Germania, cosa succede restando nell'euro? Accade che perdiamo quote di mercato, e questo produce disoccupazione, unita ad una forte spinta ad aumentare lo sfruttamento del lavoro per compensare i differenziali di competitività.
Ecco perché l'Europa ci impone i licenziamenti facili e le deroghe ai Contratti Nazionali di Lavoro. Se il nostro problema fosse abbassare il debito pubblico, queste richieste non avrebbero senso. Ma se l'obiettivo è abbassare i differenziali di competitività, l'estensione a tutto il mondo del lavoro del “modello Marchionne” diventa una necessità. L'Euro unisce paesi con industrie a diversi livelli di produttività, questo è un fatto.
Per salvare la moneta unica, e contemporaneamente rigettare l'estensione del “modello Marchionne” occorrerebbero investimenti colossali per rinnovare l'intero sistema produttivo del Paese e portarne la produttività e la competitività fino a livelli “tedeschi”. E i denari per questi investimenti non ci sono, né ci sarebbero introducendo ingenti imposte patrimoniali o colpendo l'evasione.
Esclusa questa strada non resterebbe che affidarsi alla possibilità che siano i Paesi forti a pagare gli effetti degli squilibri di competitività, tramite strumenti come gli Eurobonds, magari uniti a una fiscalità generale vantaggiosa per i Paesi deboli. Ma questa non sarebbe che una falsa soluzione. Già oggi l'opinione pubblica tedesca è manifestamente contraria agli aiuti ai Paesi deboli.
Ipotesi come queste incontrerebbero quindi una resistenza fortissima in tutti i settori sociali, come ha recentemente dimostrato il dibattito tedesco sul finanziamento del nuovo fondo salva-stati EFSF, accettato a larga maggioranza dal Bundestag solo dopo ampia rassicurazione che il fondo stesso non sarà aumentato.
Pertanto gli Eurobond, un sistema fiscale coordinato, o qualsiasi soluzione che comporti una perequazione delle ricchezze a livello europeo, potrebbero vedere la luce solo dopo aver recepito le richieste dei Paesi forti, e cioè dopo aver implementato meccanismi di spoliazione della sovranità nazionale tali da garantire l'applicazione di tutte le misure favorevoli all'aumento di competitività dei Paesi deboli. Si ritornerebbe a dover accettare la cancellazione dei diritti e delle tutele dei lavoratori, senza nemmeno aver più un governo nazionale come controparte, perché le disposizioni verrebbero direttamente impartite da Bruxelles.
Ecco dunque i motivi della nostra critica a Viale. Si può coniugare la difesa del lavoro e la salvezza dell'Euro? La conversione ecologica della produzione che Viale giustamente chiede, produce un aumento della competitività del sistema-Paese?
Se la risposta a queste domande è NO, salvare la moneta unica rende necessario accettare l'attacco ai diritti dei lavoratori e rinunciare alla conversione ecologica dell'economia. E impone a ciascuno di noi le scelte conseguenti.
di Marino Badiale e Fabrizio Tringali
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