Pochi giorni fa il leader dimissionario di un CNT perennemente in subbuglio, Abdul al Jalil, è giunto a Roma per una visita di Stato. Ha incontrato il neopremier Mario Monti, col quale ha siglato la solenne rientrata in vigore del Trattato d’Amicizia Italo ¨C Libico del 2008, congelato mesi fa, quando la destabilizzazione politica della Jamahiriya libica era giunta ad un punto di non ritorno. L’incontro è stato presentato come un indubbio successo politico e diplomatico per entrambi. Innanzitutto per Jalil, al quale Monti ha promesso di ricambiare la visita con un suo viaggio in Libia previsto per gennaio del 2012: dopo Cameron, Sarkozy, Erdogan, Clinton e McCain, un altro alleato importante del CNT visiterà il paese contribuendo a sdoganare il nuovo regime e la sua classe dirigente a livello internazionale. Ciò inoltre velocizzerà anche il recupero dei vecchi rapporti d’affari (le partecipazioni libiche ad alcune importanti aziende italiane da una parte e gli interessi economici ed energetici del nostro paese in Libia dall’altra) che la guerra aveva messo in sospeso. Va sottolineato come in quest’ultimi mesi il CNT sia al centro di una frenetica attività diplomatica che lo vede ricevere delegazioni praticamente da quasi tutti i vecchi partner della Jamahiriya (in primo luogo il Sudan e molti paesi dell’Africa Nera) e anche da qualche nuovo arrivato col quale in passato i rapporti non erano mai stati particolarmente brillanti (l’Iran). Il riavvicinamento all’Italia, del resto già iniziato sotto il governo Berlusconi, si presenta quindi come un passaggio tanto obbligato quanto prevedibile di questo processo di recupero della centralità nella politica estera di cui godeva la Libia fino al 17 febbraio di quest’anno. Ma se è evidente l’intento della dirigenza bengasina di riacquisire, almeno nella parvenza, la statura politica di Gheddafi, la sua condizione di fantoccio degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Francia ed in particolare dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, ne mette rapidamente a nudo tutti i limiti e le velleitarietà.
Anche l’Italia, seppure in quadro molto diverso, si trova a scontare spazi di manovra analogamente esigui, e che i fatti degli ultimi mesi hanno oltretutto contribuito a ridimensionare ancora di più. Come ben sappiamo, la guerra della NATO e dei suoi alleati contro la Libia di Gheddafi e a favore dei suoi beniamini di Bengasi è stata combattuta (oltre che per ostacolare ed eliminare il processo di unificazione africano guidato dalla Jamahiriya e vissuto dalle potenze occidentali come fortemente lesivo dei loro interessi coloniali e neocoloniali nel continente) soprattutto per garantire a Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Qatar il controllo delle risorse energetiche ed idriche del paese; a tacere poi delle opportunità garantite dal potervi stabilire basi, dal lucrarvi sui costi della ricostruzione, dalle politiche sull’indebitamento o ancora dal contrabbando di reperti archeologici. Tutte cose già avvenute in Iraq e che un indomani potrebbero sciaguratamente ripetersi anche in Siria o persino in Iran. Fatto sta che, se fino ad un anno fa l’Italia era il principale partner economico e commerciale della Libia, oggi ciò non è più possibile perchè si deve semplicemente far posto a coloro che questa guerra l’hanno voluta e che ora reclamano la propria parte della preda, a danno ovviamente anche nostro.
L’ENI, su cui oltretutto pende la spada di Damocle di una possibile privatizzazione da parte di soggetti molto vicini a coloro che hanno voluto questa guerra, potrebbe in un non remoto futuro non gestire più in toto quel 30% di gas e di petrolio che il nostro paese annualmente importa dalla Libia. A condurre buona parte di quell’energie nelle nostre cisterne e nei nostri rubinetti potrebbero essere altri soggetti, angloamericani, francesi o addirittura qatarini, lasciando all’ENI quote di mercato minoritarie. Dopotutto le guerre si combattono, fra le tante cose, anche per impadronirsi di nuove quote di mercato: le compagnie dei paesi aggressori e vincitori avranno in Libia la parte del leone, sottraendo così alla concorrenza cinese, italiana, indiana, russa o brasiliana e soprattutto alla compagnia di Stato libica molte fette della torta; lo abbiamo già detto, è lo stesso copione già visto in Iraq. In ogni caso un ridimensionamento delle proprie attività in Libia per l’ENI non si trasformerebbe automaticamente in un danno economico: al pari dell’Iraq, le privatizzazioni e la svendita della sovranità faranno del petrolio libico uno dei più economici e convenienti al mondo per le compagnie straniere interessate alla sua estrazione. A maggior ragione se consideriamo che quello libico è tra i più poveri di zolfo che esistano, e quindi meno bisognoso di quei costosi trattamenti di raffinazione che devono invece essere praticati con abbondanza sul greggio saudita o ancor più su quello russo. La Jamahiriya tratteneva l’85% dei proventi derivanti dall’estrazione del greggio, mentre il CNT non andrà oltre il 25 o 30% a seconda dei casi: ciò significa che un 60% dei guadagni che prima restavano alla Libia ora andranno alle compagnie estrattrici, rendendo il petrolio libico davvero molto a buon mercato, soprattutto se confrontato a quello di paesi come la Russia che s’intascano l’80% per un petrolio su cui, oltretutto, dopo devono essere attuate costose procedure di decantazione. Se i guadagni per BP, Total Erg, Shell o Qatar Petroleum andranno alle stelle, anche quelli dell’ENI non saranno poi così male, nonostante il ridimensionamento delle percentuali di gas e petrolio estratti. Anche nel caso, tutt’altro che peregrino, di una riduzione ad un terzo dell’energia estratta rispetto ad un anno fa (ma Scaroni e Monti insistono che non è vero, ed anzi sbandierano la notizia secondo cui già adesso l’ENI sarebbe ritornato al 70% dei livelli prebellici, con la prospettiva di raggiungerli già a partire da marzo prossimo), gli utili resterebbero in pratica invariati proprio perchè compensati da un’eventuale triplicazione dei margini di guadagno. Ma perchè s’arrivi a questo è necessario che i contratti fra l’ENI e lo Stato libico siano rinegoziati adottando il modello già impiegato per la compagnia di Stato qatarina e quelle francesi, visto che finora l’estrazione continua ancora secondo le quantità e le percentuali sancite dalle leggi della Jamahiriya, che non sono certamente quelle da regime coloniale del CNT di Bengasi. Prima o poi vi s’arriverà, quantunque su pressioni dei vincitori e non per volontà italiana o bengasina: e sarà certamente un momento sgradito ad entrambe le controparti, visto che un contratto che consente un guadagno del 90% non fa schifo a nessun governante libico di ieri o di oggi o di domani; così come agli italiani, al di là della prospettiva di risparmiare o addirittura aumentare i propri guadagni, preoccupa comunque la possibilità di dover ridimensionare le proprie attività in Libia. Ma la NOC, la compagnia di Stato libica, prima o poi dovrà pur essere privatizzata (in toto o in parte, si vedrà: anche in questo caso vale l’esempio iracheno) ed i nuovi lotti e giacimenti da cui estrarre assegnati: i vincitori, lo abbiamo già detto, pretendono la loro parte. Hanno fatto questa guerra per entrare nel mercato libico, o meglio per impossessarsene.
Finmeccanica, altra azienda che fino a pochi mesi fa rivestiva un ruolo chiave nei rapporti economici fra Libia e Italia, ha anch’essa di fronte a sé un futuro decisamente buio. Le ultime vicende giudiziarie, che hanno portato alle dimissioni del presidente Guarguaglini, sembrano preannunciare proprio come per l’ENI un futuro disimpegno dello Stato italiano della quota azionaria ancora in suo possesso. Si continua ad ignorare che fine faranno le quote azionarie detenute dalle finanziarie libiche; un problema, questo, che riguarda pari pari anche l’ENI. Sicuramente Monti e Jalil avranno quantomeno sfiorato anche questo problema, nel corso del loro incontro romano di qualche giorno fa, e altrettanto sicuramente vi ritorneranno sopra in futuro. In quanto azionisti presenti nel capitale di queste due aziende, i libici al pari di tutti gli altri dovranno essere informati di eventuali decisioni del Tesoro italiano circa il futuro di ENI e Finmeccanica; e analogamente il nostro paese vorrà sapere se i libici sono a loro volta intenzionati a proseguire con la loro partecipazione in queste aziende con la stessa determinazione del passato o meno. Ma i problemi di Finmeccanica (e di ENI) non si limitano ai soli aspetti finanziari e proprietari. Con la Libia di Gheddafi Finmeccanica aveva messo a segno importanti contratti di fornitura, in particolare nel campo degli armamenti; com’è noto la scelta del vecchio governo libico di preferire il prodotto italiano a quello della francese Dassault aveva pesato non poco sulla decisione di Parigi (appoggiata dagli inglesi, che con la Francia hanno da tempo costituito una joint venture nel campo degli armamenti) di scatenare contro la Libia la destabilizzazione interna prima e la guerra d’aggressione esterna poi. C’è da scommettere che i futuri governanti libici, pur continuando a regalare all’industria italiana qualche contentino, d’ora in avanti preferiranno di gran lunga e in larga parte il prodotto franco-inglese e americano per la fornitura dei loro arsenali. Anche in questo caso l’esempio dell’Iraq, che preferisce gli armamenti americani a quelli della concorrenza (russa in primis), è decisamente molto valido.
Ultimo capitolo: le piccole e medie imprese italiane. Per loro s’inaugura un 2012 decisamente molto amaro, se è vero (come da dati di Confindustria) che per il nostro paese si prevedono un PIL a -1,6% e 800mila posti di lavoro in meno. Dalla Libia sono state espulse fin dai primi mesi della guerra, dato che le condizioni idonee al loro lavoro erano venute meno e che, con i nuovi assetti politici assunti dal paese, s’è definitivamente chiusa ogni prospettiva di un loro rientro. Molte PMI operanti in Libia fino all’inizio di quest’anno non vedranno mai più ripagati beni e servizi che avevano fornito anticipatamente, a tacere degli investimenti per inserirsi nel mercato libico che adesso dovranno essere considerati irrimediabilmente perduti. Anche questo è un duro colpo al tessuto economico e produttivo del nostro paese, per il quale il precedente governo non ha saputo elaborare alcuna cura; e non risulta che, al momento, il nuovo esecutivo abbia valutato alcuna iniziativa volta ad alleviare o sanare almeno in parte questo problema. Se ENI e Finmeccanica, in virtù della loro forza industriale, possono quantomeno contare sulla certezza della propria sopravvivenza e sulla possibilità d’individuare nuovi sbocchi economici e commerciali con cui compensare quelli perduti, le PMI (e non soltanto quelle che operavano in Libia) possono solo augurarsi di riuscire a festeggiare, dopo quello del 2011, anche il capodanno del 2012, per quanto sempre più ridimensionate e malandate.
Tratto da: http://www.statopotenza.eu/1199/la-nuova-libia-e-la-nuova-italia
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