Il governo statunitense, coadiuvato da larga parte della stampa internazionale facente riferimento ai grandi gruppi finanziari, ha ripetutamente espresso "preoccupazione" in merito agli sviluppi della politica energetica europea.
La messa a punto dei gasdotti "Nord Stream" e "South Stream" sancirebbe, secondo il parere di costoro, l'atto costitutivo della dipendenza energetica europea dal Cremlino. Questa obiezione accattivante è probabilmente frutto di una nuova versione di un maccarthysmo corretto e rivisitato, volto a mettere in guardia gli "inermi" ed "ingenui" cittadini europei dal favorire il ritorno della Russia quale attore di primo piano in questo complesso scenario geopolitico che sta inesorabilmente avviandosi verso il multipolarismo. Così come gli Stati Uniti si erano presi gioco di quel gonzo di Gorbaciov, estendendo l'area di influenza della Nato ben oltre ai limiti concordati, ora la Russia sta riconquistando diverse posizioni, tessendo rapporti con tutti i grandi attori eurasiatici. Questo è ciò che sta accadendo, ma con una prospettiva del tutto nuova rispetto all'epoca della "Guerra Fredda". Per comprendere questa nuova prospettiva occorre però fare qualche passo indietro, e tornare alla "rivoluzione arancione" in Ucraina del 2004, culminata con l'ascesa al potere dell'atlantista Viktor Jushenko. Jushenko fu da subito protagonista di una serie di scontri diplomatici piuttosto duri con la Russia, opponendo un cospicuo aumento delle tasse derivanti dal transito del gas russo nei tubi ucraini, alla pretesa della Gazprom di portare il prezzo del gas da vendere all'Ucraina ai normali livelli di mercato. La diatriba tra i due si protrasse per diversi anni, e culminò nel gennaio 2009, in occasione della scadenza del contratto che regolava i termini del transito, quando Gazprom decise di interrompere il flusso di gas destinato all'Europa. Si trattò di una mossa abilissima, che diede modo agli incolori burocrati di Bruxelles di percepire quanto fosse urgente individuare vie di approvvigionamento energetico stabili e indipendenti dalle turbolenze interne ai singoli paesi. L'elezione, nello scorso febbraio, del filorusso Viktor Janukovich ha poi portato una notevole distensione dei rapporti tra Kiev e Mosca; una cordialità che ha reso possibile la ratifica di un accordo mediante il quale all'Ucraina è stato accordato il diritto di usufruire del 30% di sconto sulle forniture di gas russo in cambio di una serie di concessioni economiche e militari al Cremlino. Nonostante la riappacificazione tra le due nazioni, la necessità di creare nuove strutture per il transito degli idrocarburi è però rimasta, in quanto per troppo tempo Russia ed Europa erano rimaste "ostaggio" delle contorte manovre politiche ucraine. Alla luce di questa constatazione, la costruzione dei gasdotti "Nord Stream" e "South Stream" appare allora una soluzione sensata e adeguata al problema, tenuto conto anche dei cospicui problemi politici di varia natura (come la Polonia dell'era Katcynski) che persistono in altri paesi dell'est, comprensibilmente diffidenti verso il Cremlino. Il "Nord Stream", una volta ultimato, solcherà i fondali del Baltico e giungerà direttamente in Germania, mentre il "South Stream" (in cui l'Eni è chiamata a fare la parte del leone) attraverserà il Mar Nero e, dalla Bulgaria, si snoderà a sud verso Grecia e Puglia e a nord verso Austria e Ungheria. E' su questo punto che gli inguaribili atlantisti sono soliti concentrare il fuoco, agitando ossessivamente lo spettro della dipendenza europea dalla Russia. Sul piano pratico è stato dato il via alla realizzazione a punto del gasdotto "Nabucco" (la cui costruzione è patrocinata da UE e Stati Uniti), da molti analisti ritenuto un’alternativa credibile al "South Stream", poiché bypasserebbe svariate nazioni "turbolente" e consentirebbe all'Europa di rifornirsi parzialmente di gas non russo ma proveniente dai paesi dell’Asia Centrale. La messa a punto di tale gasdotto è però enormemente condizionata dai cattivi rapporti che Washington intrattiene con l'Iran di Ahmadinejad. Al momento, appoggiarsi al "South Stream" pare infatti offrire diverse garanzie in più rispetto a quante ne deriverebbero dal rifornirsi tramite il "Nabucco". Da un punto di vista più strettamente politico, gli atlantisti affermano invece che assecondando i progetti del Cremlino, l'Europa si ritroverebbe a subire l'oppressiva egemonia russa. Al di là dell'incredibile ipocrisia mostrata da costoro (c'è, per l'Europa, qualcosa di più oppressivo e soffocante dell’egemonia americana?), va mostrato come le loro tesi allarmistiche si scontrino inesorabilmente con la realtà dei fatti. A differenza di quanto avviene negli USA, la semi - totalità delle nazioni produttrici di idrocarburi ha un'economia pesantemente condizionata dalle esportazioni; al netto dei profitti derivanti dalla vendita di idrocarburi, il PIL dei paesi dotati di questo tipo di economia rischierebbe di scomparire in un colpo solo. La Russia ha un bisogno di esportare idrocarburi probabilmente maggiore rispetto a quanto l'Europa non ne abbia di importarne. Sottraendole il patrimonio energetico di cui attualmente dispone, la si condannerebbe a una recessione paragonabile a quella dell'era El'cin. Lo stesso discorso vale ovviamente per Venezuela, Arabia Saudita e Iran, nazione condannata senza appello dai molti “utili idioti” (nella migliore delle ipotesi) che si ostinano a non voler prendere in esame la possibilità che l’arricchimento dell’uranio decretato da Teheran sia finalizzato al raggiungimento di scopi civili e non militari, laddove la diversificazione delle fonti energetiche è una strada che moltissimi i paesi stanno iniziando ad imboccare. In ogni caso, va ricordato che gli Stati Uniti erano ben consci dei limiti propri all’economia Sovietica (e che tuttora vigono in un paese come la Russia) già agli sgoccioli della “Guerra Fredda”, quando (si parla del 1986) liberalizzarono la vendita del petrolio dell’Alaska e misero a disposizione le proprie tecnologie d’avanguardia al servizio delle potenze europee affiliate alla Nato allo scopo di favorire l’estrazione del petrolio dal Mare del Nord; immettendo enormi quantitativi di petrolio sul mercato internazionale si andava infatti a promuoverne un vertiginoso abbassamento dei prezzi al barile (che raggiunse i 10 dollari nel mese di maggio), cosa che a sua volta sortì ripercussioni devastanti e irreversibili sulla fragile economia Sovietica, ancorata com’era al mercato degli idrocarburi. In secondo luogo, non esistono alternative credibili in grado di sopperire all'eventuale sganciamento (prospettiva assai gradita in quel di Washington) da Mosca. Il progressivo calo di estrazioni gasifere nei giacimenti del Mediterraneo e del Mare del Nord rivela l'incontestabile fatto che l'Europa sta esaurendo le proprie risorse, e le forniture provenienti dai paesi nordafricani non sono sufficienti a coprirne il fabbisogno. Il lucido economista Stefano Casertano scrive che "Considerando i 560 miliardi attuali di consumo, dobbiamo sottrarre 60 miliardi di metri cubi di ridotta produzione europea, e otteniamo 500 miliardi. A questi aggiungiamo i 20 in più che arriveranno entro il 2020 dall'Algeria, e i 60 in più degli altri paesi; sommati ai 500 iniziali, otterremo 580 miliardi di metri cubi di gas. Per arrivare ai 640 miliardi di metri cubi del 2020 mancano ancora 60 miliardi. La prima soluzione si chiama Russia". La strada indicata da Casertano è effettivamente la più sicura e vantaggiosa per l’Europa, tanto dal punto di vista geopolitico (la vicinanza della Russia e la portata dei suoi enormi giacimenti sono condizioni che nessun altro paese produttore è in grado di offrire), quanto, e forse in misura maggiore, da quello strategico. Se l’Europa decidesse malauguratamente di voltare le spalle, anche parzialmente, alla Russia, Putin potrebbe volgere interamente il proprio sguardo a est, verso il gigante cinese, letteralmente affamato di approvvigionamenti energetici. Deng Xiao Ping sosteneva l’occorrenza di “Nascondere gli artigli mentre si sviluppa la propria potenza” e la Cina, fedele a questa massima, ha tessuto numerosissime trame coi paesi centroasiatici, mettendo saggiamente la sordina ai propri successi. Con il Turkmenistan, gli abili strateghi di Pechino hanno siglato accordi estremamente importanti, che hanno permesso la costruzione di un gasdotto, che apporterà 40 miliardi di metri cubi di gas per 30 anni, e di un oleodotto, di capacità pari a 200.000 barili di petrolio al giorno. Al momento la Cina produce circa 75 miliardi di metri cubi di gas l’anno e ne consuma un’ottantina, ma diverse stime rivelano che entro il 2030, un terzo del fabbisogno di gas della nazione verrà integralmente coperto dalle importazioni estere. Il gasdotto in questione subirà presto un corposo potenziamento, e sarà agganciato anche alla rete gasifera del Kazakistan, altro grande paese produttore. L’aspetto inedito della faccenda è che per la prima volta Mosca ha lasciato carta bianca a un paese storicamente gravitante attorno alla sua orbita, consentendo allo scaltrissimo primo ministro turcomanno Gurbanguly Berdimuhamedov di trattare direttamente con la Cina, nazione potenzialmente concorrente nel medio periodo. Nei confronti dell’Iran non è stato riservato lo stesso tipo di trattamento, se è vero che tanto la Russia quanto la Cina hanno espresso, davanti al Consiglio di Sicurezza riunito appositamente, il proprio voto favorevole all’applicazione di nuove sanzioni a Teheran. Ahmadinejad stava infatti civettando con Chavez e Erdogan estromettendo dalle trattative la Russia, ed è probabilmente tenendo presente questa “sconsideratezza” dell’Iran che è bene leggere gli esiti della faccenda. Mosca intende tenersi stretta la propria centralità energetica, cui anche i paesi più riottosi sono costretti a far riferimento, e intende integrare in un circolo di reciproca dipendenza tutti i paesi che vanno dallo Stretto di Gibilterra al Mar Cinese Meridionale. La vocazione eurasiatica della Russia appare a questo punto evidente; evidente a tutti tranne che agli scialbi burocrati di Bruxelles, che nemmeno di fronte agli aperti richiami alla collaborazione spesi da Putin in occasione della conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco il 7 febbraio 2007, si sono sentiti “autorizzati”, chissà da chi, a tendere la mano al leader russo.
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