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lunedì 28 febbraio 2011

Se sventolano in piazza le bandiere di re Idris.

Quando la memoria storica è azzerata.

Conquistata Bengasi, gli insorti hanno ammainato la bandiera verde della Repubblica libica, issando quella rosso, nero e verde, con mezzaluna e stella: la bandiera monarchica di re Idris. La stessa issata dai manifestanti (compresi quelli di Pd e Rc) sulla cancellata dell’ambasciata libica a Roma, al grido di «Ecco la bandiera della Libia democratica, quella di re Idris». Un atto simbolico, ricco di storia e di scottante attualità.
Già emiro della Cirenaica e della Tripolitania, Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi fu messo sul trono di Libia dagli inglesi, quando il paese, colonia italiana dal 1911, ottenne l’indipendenza nel 1951. La Libia diventava una monarchia federale, in cui re Idris esercitava la funzione di capo di stato, con il diritto di trasmetterla ai suoi eredi. Era sempre il sovrano a nominare il primo ministro, il consiglio dei ministri e metà dei membri del senato, che avevano il diritto di dissolvere la camera dei deputati.

In base a un trattato ventennale di «amicizia e alleanza» con la Gran Bretagna, nel 1953, re Idris concesse agli inglesi, in cambio di assistenza militare e finanziaria, l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo venne concluso nel 1954 con gli Stati uniti, che ottennero l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa divenne la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Stati uniti e Gran Bretagna disponevano inoltre, in Libia, di poligoni di tiro per l’aviazione militare. Con l’Italia re Idris concluse nel 1956 un accordo, che non soltanto la scagionava da tutti i danni arrecati alla Libia, ma permetteva alla comunità italiana in Tripolitania di mantenere praticamente intatto il suo patrimonio.
La Libia divenne ancora più importante per gli Stati uniti e la Gran Bretagna quando, alla fine degli anni ’50, la compagnia statunitense Esso (ExxonMobil) confermò l’esistenza di grandi giacimenti petroliferi e altri ne vennero scoperti subito dopo. Le maggiori compagnie, come la statunitense Esso e la britannica British Petroleum, ottennero vantaggiose concessioni che assicuravano loro il controllo e il grosso dei profitti del petrolio libico. Ottenne due concessioni anche l’italiana Eni, attraverso l’Agip. Per meglio controllare i giacimenti, venne abolita nel 1963 la forma federale di governo, eliminando le storiche regioni di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan.

Le proteste dei nazionalisti libici, che accusavano re Idris di svendere il paese, furono soffocate dalla repressione poliziesca. Cresceva però, soprattutto nelle forze armate, la ribellione. Essa sfociò in un colpo di stato – di cui fu principale artefice il capitano Muammar Gheddafi – attuato in modo incruento nel 1969 da appena cinquanta ufficiali, denominatisi «ufficiali liberi» sul modello nasseriano. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica costrinse nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l’anno seguente, nazionalizzò le proprietà della British Petroleum e costrinse le altre compagnie a versare allo stato libico quote molto più alte dei profitti.


La propaganda del 1911

La bandiera di re Idris, che ora sventola di nuovo nella guerra civile in Libia, è il vessillo di coloro che, strumentalizzando la lotta di quanti lottano genuinamente per la democrazia contro il regime di Gheddafi, intendono riportare la Libia sotto le potenze che un tempo la dominarono. Quelle che, capeggiate dagli Stati uniti, si preparano a sbarcare in Libia sotto il paravento del «peacekeeping». Intanto, di concerto col Pentagono, il ministro La Russa annuncia che dalla base di Sigonella partiranno aerei militari, diretti in Libia per «scopi esclusivamente umanitari». Lo stesso «intervento umanitario» che chiedono i pacifisti dell’«appello urgente» e quelli che sventolano la bandiera di re Idris, dimentichi della storia.
Dovrebbero ricordarsi che un secolo fa, nel 1911, l’occupazione della Libia, preparata da una martellante propaganda, fu sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica, mentre nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia canzone». Cambiano i tempi e i linguaggi, ma resta la rima «al rombo del cannone».

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