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mercoledì 23 febbraio 2011

Tocca alla Libia: ecco perché e a chi conviene.

(...) Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.
Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.
Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello, da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.
La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipende proprio dal Nord Africa. L’esplosione “controllata” rischia di essere, comunque, devastante per gli interessi del nostro Paese*.
Non abbiamo scelta e l’Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile chiedersi: il prezzo è giusto?

Tratto da: http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=31330

*Il primo effetto della crisi libica per l’Italia è stata la sospensione della fornitura di gas libico attraverso il gasdotto Greenstream che collega la costa nordafricana al terminale di Gela. Una nota dell’Eni ne ha attribuito la causa ad una temporanea sospensione di alcune attività di produzione di gas naturale in Libia. L’Eni ha comunque assicurato di essere in grado di far fronte alla domanda di gas da parte dei propri clienti, considerato che la Libia copre appena il 12% del nostro fabbisogno. (...) L'Italia importa infatti gas da diversi Paesi, attraverso un sistema differenziato di fonti e gasdotti. Gli altri fornitori dell’Italia sono l’Algeria (33%), la Russia (30%) e l’Olanda (19%). (...)Ma al di là delle rassicurazioni del governo, la possibile involuzione della crisi libica con il precipitare del Paese in una guerra civile con un relativo vuoto di potere, potrebbe comportare conseguenze molto gravi tali da vanificare la ancora timida ripresa economica dei Paesi europei. L’aumento del prezzo del petrolio che ha ormai abbondantemente superato il tetto dei 100 dollari al barile per la qualità Brent, quella trattata sul mercato di Londra, farà peggiorare la bilancia commerciale, aumenterà l'inflazione e causerà pressioni sulle banche centrali ad alzare i tassi di interesse. Questo tipo di preoccupazioni sono particolarmente accentuate per il nostro Paese che, a causa del possibile effetto a macchia di leopardo, teme un blocco parziale o totale delle forniture non solo del gas libico ma anche di quello algerino (al terminale di Mazara del Vallo).  (...) Quanto ai fornitori alternativi, secondo le valutazione della Snam (controllata dell’Eni che gestisce la rete nazionale del gas), al momento esistono margini per aumentare le importazioni dalla Russia, anche se in tale ipotesi potrebbero esserci conseguenze economiche per gli operatori che non hanno ancora ottenuto rinegoziazioni dei contratti con Gazprom.(...)
Tratto da: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=6662 (Il gas libico non arriva più in Italia).

Parla Gheddafi:
Io sono il leader di una rivoluzione, non sono un presidente.

Muammar Gheddafi "Io sono il leader di una rivoluzione, non sono un presidente. Non ho un mandato da cui dimettermi", e perciò morirà da martire, come un combattente che resiste fino all'ultima goccia di sangue.
Per settantacinque minuti il leader libico ha urlato rabbioso contro i "ratti che hanno invaso le strade", contro le "bande di giovani drogati e ubriachi" che assaltano le caserme e le stazioni di polizia. Il Colonnello si è rivolto ai suoi sostenitori che lo ascoltavano nella Piazza Verde di Tripoli: "Uscite dalle vostre case, scendete in strada. Cacciate i nemici, andate a prenderli fin dentro le loro tane".
"Indossate una fascia verde come riconoscimento, a partire da domani andate e combattete, ripulite la Libia casa per casa!". "Liberate Bengasi!" È il vero punto di non ritorno, è il momento dello scontro finale e, presumibilmente, il sangue scorrerà a fiumi. "Finora non ho ordinato che si sparasse neanche una sola pallottola, ma quando lo farò, tutto andrà in fiamme". E poi si rivolge ai famigliari dei giovani manifestanti: "Sono giovani, non hanno colpe, sono stati strumentalizzati, drogati e ubriacati dai servitori del diavolo. Riportateli a casa". Perché da domani non ci saranno più scusanti.
Dalla sua residenza di Tripoli - poi diventata monumento nazionale - bombardata "da 170 caccia americani" nel 1986, il rais di Tripoli ha rivendicato l'orgoglio nazionale della Libia, un paese "leader mondiale che oggi temono tutti". I suoi attacchi sono trasversali, i suoi nemici vanno dal diavolo occidentale - Usa e Gran Bretagna - agli estremisti islamici che vorrebbero trasformare la Libia in "una base di Al-Qaeda". "Volete questo?". "Che gli Stati Uniti occupino la Libia come hanno fatto con Afghanistan, Iraq e Somalia per sradicare l'estremismo islamico?" La telecamera della Tv di stato indugia più volte sul monumento posto all'esterno della residenza: il pugno dorato libico che stritola un caccia americano.
Il discorso è sempre stato, per il resto, sul binario dell'attacco: contro l'Occidente che vuole riaprire l'epoca del colonialismo, contro le emittenti Tv arabe che hanno dato al mondo "una visione distorta del popolo dei coraggiosi, della gioventù patriottica", che è il vero volto della Libia, non quello mostrato dai codardi pagati da "un gruppo di malati che agisce dal di fuori".
"Da domani" assicura Gheddafi, "l'ordine e la sicurezza verranno ristabiliti in tutto il paese". Il leader ha dato il comando: esercito e polizia dovranno schiacciare la rivolta.

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