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giovedì 9 settembre 2010

L'«inverosimile» attacco prossimo venturo.

Israele è pronta ad attaccare l’Iran. Una crisi annunciata della quale Washington, contrariamente a quanto vorrebbe far credere, non è affatto all’oscuro.
Anche la Russia e la Cina, a sorpresa, sembrano dare il via libera all’attacco in fede a inediti e non meglio precisati “scambi di favori”. Accettando un rischio di proporzioni non ancora prevedibili.
C’è da chiedersi: perché lo fanno?



Se siamo a 5 minuti, a 5 giorni, a 5 mesi, non possiamo saperlo. Ma che siamo a 5 anni possiamo escluderlo. Da dove? Dal momento in cui Israele attaccherà militarmente l’Iran e darà avvio a una crisi militare di così vaste proporzioni da modificare per una lunga fase i già precari equilibri mondiali restanti.

Questa crisi - annunciatissima ma che quasi nessuno vuole vedere - si aggiungerà, aggravandole drammaticamente, a tutte le altre crisi già in atto. Israele vi si accinge, incoraggiata da potenti circoli internazionali che sono interessati a un grande incendio: l’unico nel quale potranno essere bruciati tutti i libri contabili degli organizzatori della fine di un’epoca intera della storia umana.
Inutile rispondere alle obiezioni che di solito promanano da ogni sorta di anime belle: hanno tutte lo stesso difetto originario, consistente nell’applicare le regole del politically correct a Israele.

Quelle regole non sono usate da Israele essendo esse state inventate per i paesi normali, mentre Israele è un paese eletto. La sostanza di questo pensiero è che Dio sta dalla sua parte, è “con Israele”. E, quindi, ogni forma di analisi politically correct del comportamento di Israele appare insensata, essendo Dio estraneo a criteri del genere.

Quindi, invece di prevenire le obiezioni politically corrected mi limiterò ad elencare i fatti. Che sono molto più vasti, con le loro implicazioni, dei confini di Israele e conducono tutti, inequivocabilmente, ad un esito, dove Israele svolgerà un ruolo principale: quello detto all’inizio. Se poi quell’esito sembrerà dimostrare che Dio è con loro, non potremo che invocare quel Dio chiedendogli che “ce la mandi buona”.

Vediamo dunque i fatti. A cominciare dall’assalto al convoglio di navi pacifiste che, alla fine di maggio, intendeva rompere il blocco di Gaza. Sappiamo – fu chiaro fin dal primo momento della tragedia – che non è stato un malaugurato errore, ma una sanguinosa provocazione ideata a freddo per aprire uno scandalo internazionale di enormi proporzioni. Lo scopo era quello di punire la Turchia. Un segnale dunque.

Alle anime belle che si sono affannate a scrivere che l’attacco dei commandos israeliani ha provocato gravi danni alla causa israeliana, isolando ulteriormente quel paese perfino da molti dei suoi amici europei, si dovrà suggerire di guardare la faccenda da un altro angolo visuale. Israele non ha bisogno di alleati terreni, salvo uno, che è terreno solo in un senso particolare, sentendosi investito, da circa 100 anni a questa parte, di una missione divina anch’esso: gli Stati Uniti d’America.

E questo alleato non lo ha perduto e non lo perderà mai.

Si capirà meglio così che la violenza contro i pacifisti non è stata un incidente ma è stata organizzata proprio per spaccare la comunità occidentale e per costringere tutti a scoprire le loro carte. Del resto - secondo fatto da elencare – Ankara e Brasilia (new entry, quest’ultima, a sorpresa in questa partita planetaria) dovevano essere punite (il Brasile si aspetti il suo turno) per avere rotto il fronte dell’Occidente mandando i rispettivi presidenti a trattare con Ahmadi Nejad una soluzione che consentisse all’Iran di procedere senza essere disturbato con il suo programma nucleare civile.

Dunque occorre non perdere d’occhio il cospicuo movimento tettonico di cui è protagonista la Turchia. Esso procede con scosse di assestamento sempre più potenti e si ripete, il 9 giugno (una decina di giorni dopo la crisi della flottiglia pacifista) con il voto contrario (di nuovo la Turchia e il Brasile agiscono di concerto) alle sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro l’Iran. Sanzioni, come sappiamo, promosse dagli Stati Uniti e accolte da Russia e Cina: ecco due novità di vaste implicazioni, piene di interrogativi come funesti vasi di Pandora.

Tra i fatti da tenere presenti, perché senza queste pennellate altrimenti il quadro non sarebbe completo, c’è la circostanza che, fino a ieri, gli aerei israeliani che sarebbero destinati ad attaccare l’Iran, come prima onda d’urto, si trovavano in una base Nato in territorio turco. Lo scopo era chiaro: disporre di una traiettoria di volo breve. Non mi stupirei adesso che quella traiettoria breve, senza rifornimenti in volo, non sia più disponibile e che quei caccia bombardieri siano già stati trasferiti, o siano in via di trasferimento in qualche altra base segreta, sicuramente non più in Turchia.

Per scoprire quale essa sia basta fare un piccolo esercizio di Risiko, carta alla mano, e elenco dei paesi Nato nell’area, senza trascurare qualche paese, più piccolo e ben piazzato, che è amico degli Stati Uniti e di Israele e che si trova nelle vicinanze dell’Iran. Altra buona ragione per punire Erdogan.

Ma altri fatti si accavallano in rapida successione. Il 7 giugno, due giorni prima del voto Onu, The International Herald Tribune, nella sua pagina di opinioni editoriali, pubblica un articolo di Richard V. Allen, che fu consigliere per la Sicurezza nazionale di Ronald Reagan nel biennio 1981-82. Allen, dopo avere esordito con queste parole (“con le notizie controverse che circolano a proposito di un attacco israeliano”), ricostruisce l’altro attacco israeliano di 29 anni fa contro l’impianto nucleare iracheno di Osirak, ancora in costruzione in quel momento. Curiosamente l’intero articolo sembra concepito per dimostrare che Washington non sapeva nulla di nulla di ciò che Tel Aviv aveva organizzato.

Lo stesso Reagan, apparentemente cadendo dal pero, chiede infatti a Allen: “Perché secondo te l’hanno fatto?”. Verrebbe da dire: beata ingenuità.

Il giorno dopo, nella Sala Ovale, si terrà una accesa riunione, mentre le polemiche dilagano nel mondo a proposito delle rovine ancora fumanti di Osirak. Rovine dell’allora alleato degli Stati Uniti Saddam Hussein. In quella riunione il vice-presidente di allora George H.W.Bush, George Baker, capo dello staff presidenziale, Michael Deaver, aiutante del presidente, si schierano per punire Israele, mentre il generale Alexander Haig, segretario di stato, e il capo della Cia William J.Casey sono per appoggiare Israele.

Se crediamo alla versione di Allen, il presidente Reagan fece il pesce in barile e rimase, in sostanza, ad ascoltare la disputa. Ma il finale è noto: alla fine di quell’anno gli Stati Uniti e Israele firmarono un accordo di cooperazione strategica.

Allora Dio era con loro, senza dubbio alcuno. Ma la domanda è questa (e spiega bene perché l’autorevole quotidiano americano abbia pubblicato proprio quell’articolo e proprio in quei giorni): 29 anni dopo sarebbe ancora possibile (anche se prendessimo per buono il racconto di Richard V. Allen) un attacco israeliano contro l’Iran senza che il Pentagono, la Cia e gli altri servizi segreti statunitensi ne sappiano nulla? Ovvio che Washington non è affatto all’oscuro di ciò che è già stato preparato. Neanche se lo volesse potrebbe ignorarlo. Perché i primi a non fare mistero delle loro intenzioni sono proprio i capi israeliani.

Lo stesso 9 giugno (che è poi il giorno delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza), lo stesso International Herald Tribune rivela, in prima pagina, con un articolo da Gerusalemme di Andrew Jacobs, che una delegazione israeliana è andata a Pechino per far sapere ai cinesi, “senza melensaggini diplomatiche”, che Israele intende attaccare militarmente l’Iran.

L’esplicito proposito della visita, scrive Jacobs, era di “spiegare con precisi dettagli l’impatto economico che la Cina subirebbe nel caso di un colpo israeliano contro l’Iran”. Ipotesi che Israele “considera probabile quando dovesse ritenere che l’Iran potrebbe riuscire a mettere insieme un’arma nucleare”.

Si noti la formulazione: l’attacco avverrà quando Israele pensa che l’Iran “potrebbe riuscire...” non quando ci sarà riuscito. Cioè prima ancora che il pericolo si delinei e molto prima che esso sia attuabile, poiché una bomba che non può essere portata sul bersaglio non costituisce un pericolo reale e l’Iran non dispone di vettori per la bisogna e, ove si avvicinasse a questo obiettivo, non potrebbe tenerlo nascosto alle osservazioni dall’esterno e dall’interno cui è sottoposto incessantemente da tutti i servizi segreti occidentali e orientali.

Non viene detto come i cinesi abbiano reagito ai chiarimenti israeliani. Si sa solo che hanno votato le sanzioni, seppure mantenendo, come ha fatto Mosca, alcuni distinguo. Ma – ecco un altro fatto - tre giorni dopo l’articolo citato, tre giorni dopo il voto all’Onu, ecco la notizia che la Russia non onorerà più il contratto che aveva già firmato con l’Iran per la fornitura di 300 missili terra-aria. La perdita della commessa – rivela Russia Today quel giorno – vale oltre un miliardo e 200 milioni di dollari: un colpo per Rosvooruzhenie, eppure il Cremlino non muove un ciglio e getta via il tesoro.

Si tratta di armi cruciali per la difesa contro un attacco aereo e mediante missili di crociera. Anche qui il significato è inequivocabile: Mosca concede il via libera. Lo stesso giorno 12 giugno le agenzie riferiscono che l’Arabia Saudita, dopo avere informato il governo di Washington, concede il proprio spazio aereo al passaggio dei bombardieri israeliani. Negli stessi giorni fonti iraniane rendono noto che tre sommergibili israeliani, con missili da crociera a bordo, sono entrati nel Golfo Persico, sicuramente non all’insaputa del comando strategico degli Stati Uniti.

E, segnale apparentemente soltanto tangenziale rispetto a questo scenario, sempre lo stesso giorno a Bruxelles il ministro degli esteri russo, Lavrov, insieme ai suoi colleghi di Kazakhstan e Uzbekistan, annuncia la decisione di aprire la strada per il transito dei convogli della Nato (non più soltanto di quelli americani) che trasportino armi, uomini e logistica verso l’Afghanistan.

Quale sia l’interesse russo in questo “affaire” non è chiaro. Ovvio che stiamo assistendo a un grande “scambio” di favori, ma non ne conosciamo i termini. Mosca e Pechino accettano il rischio.

Perchè lo fanno? Né l’una né l’altra hanno qualche cosa da temere dall’Iran e, a prima vista, entrambe hanno qualche cosa da perdere. La Russia, per esempio, corre il rischio di vedere affacciarsi sulle rive del Mar Caspio un altro governo filo americano. Sicuramente in caso di una grande crisi militare – se l’Iran riuscirà a resistere e a infliggere colpi a sua volta – il prezzo del petrolio potrebbe balzare in alto. E, se questo sarebbe un bel regalo per Mosca, sarebbe invece un brutto colpo per la Cina.
Certo Mosca potrebbe guardare con sospetto non minore di quello americano, al sorgere di una alleanza Turchia- Iran. Ma può essere anche che Cina e Russia ritengano che l’avventura iraniana si risolverà strategicamente in un nuovo disastro per gli Stati Uniti: la classica immagine di chi sta seduto sulla riva del fiume per aspettare il passaggio del cadavere del nemico. Per giunta avendo ricevuto dal nemico agonizzante qualche regalo. Ma dev’essere stato un grande regalo davvero.

Certo è che l’operazione Teheran comporta un grande scenario preparatorio. Grande quanto il fuoco che ci si prepara ad accendere. E non dopo, ma durante, la presidenza del premio Nobel per la pace Barack Obama.

di Giulietto Chiesa - ANTIMAFIADuemila N°65


(Fonte WEB:
http://www.giuliettochiesa.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1528:l'inverosimile-attacco-prossimo-venturo&Itemid=7)

giovedì 2 settembre 2010

GEOPOLITICA FOR DUMMIES

Troppo spesso ci si ferma alle apparenze senza approfondire e cercare di capire cosa si cela dietro eventi apparentemente casuali ma che in un determinato momento storico e contesto geopolitico risultano essere determinanti nel destabilizzare irrimediabilmente interi apparati statali ed economici.
Il Video e l'Articolo che seguono rappresentano un classico esempio (spiegato in modo dettagliato ma allo stesso tempo semplice) di come eventi apparentemete casuali possono celare in realtà un disegno più grande.

"... ENERGY IS POWER ... USA vs EU-RUSSIA sulle vie energetiche "



...

SE I FINIANI USANO PUTIN PER ATTACCARE BERLUSCONI





Il terremoto in atto nel centrodestra tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini non può essere liquidato come il semplice e fisiologico scontro tra il capo supremo e il suo storico delfino che scalpita perché vede il tempo passare e con esso allontanarsi le possibilità di prenderne il posto nella guida di un governo di centrodestra ed affermarsi anche come il capo della coalizione. Diversi fatti inducono a sospettare che in parallelo ai finiani si muovano precisi interessi economici internazionali.

Interessi di gruppi che non amano l’attivismo del Cavaliere e i suoi forti e personali rapporti con Vladimir Putin che hanno permesso all’Eni e all’Enel di ritagliarsi un grande spazio di manovra in Russia. Non parliamo poi della ricomposizione dopo tanti anni dei rapporti con la Libia di Gheddafi nella quale anche le potenzialità dell’Eni e dell’Enel hanno giuocato un ruolo non indifferente.


Non è un caso infatti che, all’interno del rovente scambio di accuse delle due parti sulle reciproche malefatte, relative all’appartamentino di Montecarlo affittato al cognato, alla villetta di Arcore frutto dell’eredità Casati Stampa curata all’epoca da Cesare Previti, nonché a tutta la turba di donne variamente libere e di sgallettate varie, siano emerse questioni più propriamente di ambito politico ed economico.

Taluni degli scudieri di Fini hanno avuto infatti la delicatezza di intimare al Cavaliere, responsabile primario delle loro fortune politiche, altrimenti starebbero ancora per strada a distribuire volantini, di fare “chiarezza” sui suoi rapporti con Putin e Gheddafi. Se nel caso del colonnello libico l’astio dei finiani è piuttosto scontato e deve essere collegato al rammarico nostalgico dei bei tempi perduti del ventennio fascista, seguiti a “Tripoli bel suol d’amore”, che in realtà era un bel suol di petrolio, nel caso di Putin l’uscita dei finiani denota che dietro c’è ben l’altro. Ci sono interessi economici e finanziari che si sviluppano da Wall Street, dalla City e dalla Commissione europea di Bruxelles. Gruppi che operano contro il nostro Paese per distruggerne ogni autonomia sullo scenario internazionale, per cancellarne l’apparato industriale e per ridurlo ad un semplice mercato di sbocco e di assorbimento per i prodotti e le merci di altri Paesi.

Niente di nuovo sotto il sole comunque. Anche Enrico Mattei, nell’autunno del 1962 venne assassinato da ambienti “atlantici” perché la sua azione, che era votata ad assicurare l’indipendenza energetica, economica e politica al nostro Paese, cozzava con gli interessi di Israele, delle compagnie petrolifere anglo-americane e anglo-olandesi che si consideravano le uniche titolari del diritto di trattare con i Paesi arabi produttori di petrolio e di gas.

Oggi, con il legame di ferro tra Berlusconi e Putin, la questione si ripropone. Ed in un certo senso, Berlusconi presenta per certi ambienti economici internazionali maggiori problemi di quelli sollevati a suo tempo da Mattei. Questo perché, oggi che il Muro di Berlino e il comunismo sono crollati, il rapporto tra Italia e Russia, tra Europa continentale e Russia, può dispiegarsi in tutte le sue potenzialità geopolitiche. La Germania, che da sempre è la prima potenza economica e industriale dell’Europa occidentale lo aveva capito da tempo. Prima con Helmuth Kohl e poi con Gerhard Schroeder. Ed anche Angela Merkel, che era inizialmente più fredda e più filo-Usa, ha dovuto anche lei prendere atto che il legame tra Unione europea e Russia è fisiologico e che è senza senso e antistorico continuare a cianciare di solidarietà “atlantica” quando gli stessi Stati Uniti da diversi decenni hanno deciso di privilegiare semmai il rapporto “pacifico” e i legami con Cina, Giappone e Corea e le altre “tigri asiatiche”.

Così oggi, dobbiamo assistere agli attacchi contro il legame tra il Cavaliere e il suo sodale Putin, alla guida di una Russia che viene generalmente indicata dai giornali dell’Alta Finanza, e ultimamente pure dai finiani, come una dittatura spietata nella quale i dissidenti vengono assassinati e sbattuti in prigione, come il famigerato truffatore Mikhail Khodorkovsky, l’ex proprietario della Yukos, che, guarda caso era un prestanome della Exxon, la maggiore compagnia petrolifera del mondo. In realtà, quando si attacca Berlusconi per i suoi rapporti con la Russia e con Putin, si vuole puntare alla liquidazione dell’Eni sul panorama internazionale. Quell’Eni che rappresenta un nostro secondo Ministero degli Esteri, con una forza maggiore della Farnesina, ed in grado di trainare la penetrazione di altre aziende italiane nei Paesi produttori. Una forza che l’Eni si è conquistata in decenni di attività, con un approccio “non colonialista” mutuato da Enrico Mattei, grazie al quale può vivere ancora oggi di rendita.

Diventa così quanto mai significativo che la Commissione europea abbia aperto una procedura di infrazione contro l’Italia per l’utilizzo della “golden share” nel caso dell’Eni. Il Tesoro detiene infatti il 20,321% e la Cassa Depositi e Prestiti (controllata al 70% dallo stesso Tesoro) ne controlla un 9,999. Grazie alla “golden share” il governo italiano può nominare presidente ed amministratore delegato dell’Eni ed indirizzarne quindi la gestione. Questo fatto non sta bene ai tecnocrati di Bruxelles, chi più e chi meno sul libro paga delle majors anglosassoni. Se quindi, alla fine della procedura, Bruxelles dovesse sanzionare l’Italia, per l’Eni si aprirebbero scenari molto foschi dal punto di vista legale. La stessa querelle sollevata dal fondo di investimento Knight Winke (azionista dell’Eni con un misero 1%) che continua ad insistere che l’Eni debba vendere la Snam Rete Gas, in maniera tale da offrire un surplus di dividendi ai gentili azionisti, si inserisce in questo attacco all’Eni che in realtà è un attacco alla alleanza economica e strategica tra Russia e quei Paesi della Ue che nutrono un approccio più continentale che atlantico. Questo perché, l’Eni senza la Snam sarebbe un’altra cosa e anche l’importanza di gasdotti come il South Stream ne verrebbe vanificata.

Non è un caso quindi che proprio dai finiani siano arrivate dichiarazioni di appoggio ad un gasdotto alternativo come il Nabucco, pensato dagli atlantici in funzione antirussa in quanto dovrebbe portare in Europa occidentale il gas dell’Azerbaijan. Diventa così gioco forza concludere che se un Fini dovesse mai arrivare a guidare un governo di “unità nazionale” o “tecnico” , per sostituire mettiamo un Berlusconi indagato a Caltanisetta per la strage Borsellino (il siciliano Granata che dice?), una delle prime mosse sarebbe quella di mettere in vendita il 30% dell’Eni, con tanti saluti all’indipendenza economica ed energetica nazionale. In questo, il cognato di Tulliani sarebbe in buona compagnia. Anche il suo potenziale alleato, in nome della legalità, Pierferdinando Casini, capo dei centristi dell’Udc, ha più volte affermato che il Tesoro dovrebbe vendere l’Eni per tamponare in tal modo i buchi del debito pubblico.

Non è nemmeno un caso che prima della pausa estiva di Ferragosto, sia sceso in campo anche Luca di Montezemolo, ex presidente della Fiat e di Confindustria, che ha esternato tutta la sua “delusione” per l’azione di Berlusconi come capo del governo. Quel Montezemolo, fondatore della Fondazione Italia Futura che la cui attività è quella di offrire suggerimenti sul come rimettere in piedi il nostro Paese, sia dal punto di vista economico che politico. Soluzioni che ovviamente implicano massicce iniezioni di liberalizzazioni e di privatizzazioni. Insomma di Mercato. Quel Mercato che la Fiat aveva visto per anni come il fumo negli occhi. E se Montezemolo ha assicurato di non avere velleità di scendere in prima persona in politica, è lecito nutrire qualche dubbio, proprio perché si tratta di un personaggio che bene si adatterebbe a guidare un governo “tecnico”. Più che per le sue capacità, che sono tutte da verificare (si tratta più che altro di un uomo immagine), per la speranza di rivenderlo a livello internazionale. Una operazione di maquillage che durerebbe però lo spazio di un mattino in quanto non permetterebbe di risolvere i problemi del nostro Paese.

Filippo Ghira (f.ghira@rinascita.eu)
(Fonte WEB: http://www.rinascita.eu/
Link: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=3674)

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