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lunedì 28 febbraio 2011

Se sventolano in piazza le bandiere di re Idris.

Quando la memoria storica è azzerata.

Conquistata Bengasi, gli insorti hanno ammainato la bandiera verde della Repubblica libica, issando quella rosso, nero e verde, con mezzaluna e stella: la bandiera monarchica di re Idris. La stessa issata dai manifestanti (compresi quelli di Pd e Rc) sulla cancellata dell’ambasciata libica a Roma, al grido di «Ecco la bandiera della Libia democratica, quella di re Idris». Un atto simbolico, ricco di storia e di scottante attualità.
Già emiro della Cirenaica e della Tripolitania, Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi fu messo sul trono di Libia dagli inglesi, quando il paese, colonia italiana dal 1911, ottenne l’indipendenza nel 1951. La Libia diventava una monarchia federale, in cui re Idris esercitava la funzione di capo di stato, con il diritto di trasmetterla ai suoi eredi. Era sempre il sovrano a nominare il primo ministro, il consiglio dei ministri e metà dei membri del senato, che avevano il diritto di dissolvere la camera dei deputati.

In base a un trattato ventennale di «amicizia e alleanza» con la Gran Bretagna, nel 1953, re Idris concesse agli inglesi, in cambio di assistenza militare e finanziaria, l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo venne concluso nel 1954 con gli Stati uniti, che ottennero l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa divenne la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Stati uniti e Gran Bretagna disponevano inoltre, in Libia, di poligoni di tiro per l’aviazione militare. Con l’Italia re Idris concluse nel 1956 un accordo, che non soltanto la scagionava da tutti i danni arrecati alla Libia, ma permetteva alla comunità italiana in Tripolitania di mantenere praticamente intatto il suo patrimonio.
La Libia divenne ancora più importante per gli Stati uniti e la Gran Bretagna quando, alla fine degli anni ’50, la compagnia statunitense Esso (ExxonMobil) confermò l’esistenza di grandi giacimenti petroliferi e altri ne vennero scoperti subito dopo. Le maggiori compagnie, come la statunitense Esso e la britannica British Petroleum, ottennero vantaggiose concessioni che assicuravano loro il controllo e il grosso dei profitti del petrolio libico. Ottenne due concessioni anche l’italiana Eni, attraverso l’Agip. Per meglio controllare i giacimenti, venne abolita nel 1963 la forma federale di governo, eliminando le storiche regioni di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan.

Le proteste dei nazionalisti libici, che accusavano re Idris di svendere il paese, furono soffocate dalla repressione poliziesca. Cresceva però, soprattutto nelle forze armate, la ribellione. Essa sfociò in un colpo di stato – di cui fu principale artefice il capitano Muammar Gheddafi – attuato in modo incruento nel 1969 da appena cinquanta ufficiali, denominatisi «ufficiali liberi» sul modello nasseriano. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica costrinse nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l’anno seguente, nazionalizzò le proprietà della British Petroleum e costrinse le altre compagnie a versare allo stato libico quote molto più alte dei profitti.


La propaganda del 1911

La bandiera di re Idris, che ora sventola di nuovo nella guerra civile in Libia, è il vessillo di coloro che, strumentalizzando la lotta di quanti lottano genuinamente per la democrazia contro il regime di Gheddafi, intendono riportare la Libia sotto le potenze che un tempo la dominarono. Quelle che, capeggiate dagli Stati uniti, si preparano a sbarcare in Libia sotto il paravento del «peacekeeping». Intanto, di concerto col Pentagono, il ministro La Russa annuncia che dalla base di Sigonella partiranno aerei militari, diretti in Libia per «scopi esclusivamente umanitari». Lo stesso «intervento umanitario» che chiedono i pacifisti dell’«appello urgente» e quelli che sventolano la bandiera di re Idris, dimentichi della storia.
Dovrebbero ricordarsi che un secolo fa, nel 1911, l’occupazione della Libia, preparata da una martellante propaganda, fu sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica, mentre nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia canzone». Cambiano i tempi e i linguaggi, ma resta la rima «al rombo del cannone».

domenica 27 febbraio 2011

Tira più una goccia di petrolio che una mandria di buoi.

Caso Mattei : La Storia si ripete?
Solitamente cerco nel mio blog di non schierarmi politicamente ne a destra ne a sinistra, ma cerco solo di dire la mia e contribuire a divulgare, nel mio piccolo, quelle che ritengo essere notizie di informazione vera e non strumentalizzata; ma quando qualcosa è così evidente, o meglio quando a me sembra così evidente non posso fare a meno di parlarne apertamente...
... e così anche se non nominerò alcun politico i fatti che andrò a descrivere saranno ai meno ingenui molto palesi e si potrà notare come eventi storici del nostro passato hanno analogie spavantose con quello che stà acadendo oggi... non dirò altro perchè citando Guido Ceronetti: "A chi non capisce l'allusione è inutile fornire la spiegazione."
IL CASO MATTEI:

Enrico Mattei (Acqualagna, 29 aprile 1906 – Bascapè, 27 ottobre 1962) è stato un imprenditore e dirigente pubblico italiano.
Nell'immediato dopoguerra fu incaricato dallo Stato di smantellare l'Agip, creata nel 1926 dal regime fascista; ma invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l'azienda fondando nel 1953 l'ENI, di cui l'Agip divenne la struttura portante. Mattei diede nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, e aprì all'energia nucleare. Sotto la sua presidenza l'ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l'Unione Sovietica, iniziative che contribuirono a rompere l'oligopolio delle 'Sette sorelle', che allora dominavano l'industria petrolifera mondiale. Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. (Fonte Wikipedia)

Era un uomo che dava molto fastidio. La strategia di Mattei era volta a spezzare il monopolio delle “sette sorelle”, non soltanto per il tornaconto del nostro ente petrolifero, ma anche per stabilire rapporti nuovi tra i paesi industrializzati e i fornitori di materie prime.
Una strategia semplicemente inaccettabile per le grandi compagnie petrolifere che si spartiscono le ricchezze del mondo.
Enrico Mattei fu assassinato, il suo caso insabbiato, i testimoni messi a tacere. Ma una cosa è certa: l’aereo su cui viaggiava il presidente dell’ENI e che cadde la sera del 27 ottobre 1962 a Bascapé, alle porte di Milano, fu sabotato. Secondo Iannì per l’eliminazione di Mattei ci fu un accordo tra non meglio identificati “americani” e Cosa nostra siciliana. A mettere una bomba sull’aereo di Mattei fuono alcuni uomini della famiglia mafiosa capeggiata da Giuseppe Di Cristina. Anche Tommaso Buscetta rivela che la mafia americana chiese a Cosa nostra il favore di eliminare Enrico Mattei “nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane”. In Italia, poi, Mattei era un finanziatore della politica, nemico dei circoli economici e politici legati ai grandi interessi.
Enrico Mattei stava per spezzare la morsa costruita attorno a lui dal cartello petrolifero che escluse l’ENI dal mercato petrolifero internazionale, negandogli concessioni nei paesi produttori alla pari con le altre compagnie petrolifere. Mattei allora dichiarò guerra al sistema neocoloniale delle concessioni, offrendo ai paesi produttori un accordo rivoluzionario, il 75% dei profitti contro il 50% finora offerto dalle compagnie, e la qualificazione della forza lavoro locale. Il cartello reagì furiosamente, giungendo a rovesciare governi, come quello libico, che avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI prospettive di grandi forniture. Nel 1962, quando si andava prospettando la soluzione della questione algerina, Mattei era riuscito ad aggirare il blocco.
Sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Mattei aveva ipotecato un trattamento preferenziale verso l’ENI dal futuro governo. Si pensava allora che l’Algeria possedesse, al confine con la Libia , le più vaste riserve di petrolio inesplorate del mondo. Parallelamente a Mattei si mosse De Gaulle, che decise di riconoscere l’indipendenza algerina. Come contropartita, la compagnia petrolifera francese ottenne gli stessi privilegi dell’ENI. L’ingresso trionfale dell’ENI sul mercato petrolifero era quindi quasi assicurato.
Non solo, l’Executive Intelligence Review, attraverso una ricostruzione minuziosa del caso Mattei, afferma che il presidente dell’Eni, alla fine, era riuscito ad aprire un dialogo con la Casa Bianca , nonostante la stampa internazionale avesse dipinto Mattei come un pericoloso sovversivo anti-americano. Mattei, per l’Eir, era riuscito a far capire alla nuova amministrazione Kennedy che tutto ciò che desiderava era essere trattato alla pari, che egli non ce l’aveva con l’America ma con i metodi coloniali applicati dalle “sette sorelle” del petrolio. L’amministrazione Kennedy accettò il dialogo e fece pressioni su una compagnia petrolifera, la Exxon , per concedere all’Eni dei diritti di sfruttamento. L’accordo sarebbe stato celebrato con la visita di Mattei a Washington, dove avrebbe incontrato Kennedy, e dal conferimento di una laurea honoris causa da parte di una prestigiosa università statunitense.
Alla vigilia di quel viaggio, il 27 ottobre 1962, Mattei fu assassinato. Un anno dopo, fu ucciso Kennedy. In un rapporto confidenziale del Foreign Office del 19 luglio 1962, si leggeva che “il Matteismo” era “potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza (...). Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica ‘Matteista’ rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo”. E quindi Mattei andava eliminato, in un modo o nell’altro. (Fonte http://www.rinascita.info/).
La storia di Mixer - Il caso Enrico Mattei

Sequenza video completa su: Il Caso Enrico Mattei
Consiglio di vedere anche il video: 7 Morti per 7 Sorelle
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Oggi non si usa più ammazzare il politico o l'imprenditore di turno che da fastidio alle Multinazionali ... almeno non nei paesi industrializzati ... almeno non per ora ... ma oggi il "nemico" va combattuto con scandali, magari colpendo leader esteri "amici", va annientato politicamente ma soprattutto sul piano personale e così i vizi diventano reati e l'opinione pubblica si indigna e grida allo scandalo, facilitando l'alternanza al potere con Leader più "deboli" e soprattutto più flessibili verso gli interessi economici delle Multinazionali estere.

A tal proposito consiglio di leggere anche quest'articolo:

venerdì 25 febbraio 2011

LIBIA: UNA GUERRA DEL PETROLIO TRA ENI E BP ?

 VS
Ci sono vari elementi che consiglierebbero di valutare con molta cautela le attuali "notizie" riguardanti la Libia. A differenza dell’Egitto, la Libia non ha masse di disperati urbani, in parte perché il regime ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di miseria, ed in parte perché mancano proprio le masse, dato che si sta parlando di un Paese spopolato, in cui anche la cifra ufficiale di quattro milioni di abitanti risulta da stime demografiche piuttosto gonfiate per ciò che concerne le zone desertiche. C’è anche da considerare che i milioni di manifestanti visti al Cairo si avvalevano della benevola neutralità dell’esercito, mentre le poche migliaia (?) di pacifici manifestanti libici, secondo i media si sarebbero trovati addirittura sotto bombardamenti aerei e di razzi: un particolare che risulta alquanto irrealistico, e non perché il regime non sarebbe capace di tanto, ma perché solo una rivolta armata – molto bene armata – potrebbe reggere a lungo ad un tale tipo di trattamento.

Quindi, più che di una rivolta si tratterebbe di un golpe, e con tanto di agganci in settori del regime libico. "Dittatore" è una di quelle parole in grado di mandare completamente in vacanza il senso critico dell’opinione pubblica "occidentale", ed ecco perché la narrazione mediatica di una rivolta popolare spontanea, che però si dimostra capace di occupare un’intera città come Bengasi, non ha suscitato sinora dubbi e perplessità.
Durante il natale del 1989 i media ci narrarono una "rivolta" rumena contro il dittatore Ceausescu con ventimila morti, ma poi si rivelò tutto falso, ovviamente a distanza di mesi, quando la notizia aveva perso centralità.

Un altro "dettaglio" di cui tenere conto riguarda il business del petrolio libico, un business di tale entità da aver comportato mezzo secolo di guerra senza esclusione di colpi tra l’ENI da un parte e le multinazionali anglo-americane dall’altra, in particolare la BP. Persino il colpo di Stato di Gheddafi contro il re Idris, considerato un fantoccio dell’Italia, fu sicuramente favorito dalle multinazionali anglo-americane, anche se in pochi anni l’ENI recuperò in Libia il terreno perduto. Che l’attuale "rivolta" libica possa costituire un ennesimo capitolo di questa guerra del petrolio non è un’ipotesi da scartare, poiché la notizia concreta di queste ore è proprio che l’ENI sta rischiando di perdere la sua principale fonte di petrolio: la Libia, appunto.

Come è stato già ricordato da alcuni in questi giorni, la Libia stessa è un’invenzione del colonialismo italiano. Nel 1911 l’allora Presidente del Consiglio, il liberale Giolitti, dichiarò guerra all’Impero Ottomano per strappargli due province nordafricane, la Tripolitania e la Cirenaica, che furono riunite a forza sotto il nome di "Libia", un termine dalle suggestive reminiscenze imperiali romane. Il fomentare la tensione etnico-tribale tra le diverse popolazioni costituì anche uno degli strumenti di dominio del colonialismo italiano, la cui spietata brutalità è stata ampiamente documentata.

Non si può quindi escludere che la rivalità etnica sia ancora la leva con cui altre potenze coloniali oggi stiano cercando di destabilizzare il regime di Gheddafi, magari prospettando ai vari capi tribali la possibilità di cogestire il business del petrolio con le multinazionali anglo-americane. In tal caso l’afganizzazione della Libia costituirebbe un esito molto probabile, e del resto ogni aggressione coloniale, ed ogni resistenza ad essa, implicano inevitabilmente anche fenomeni di guerra civile. La cosiddetta "superpotenza" statunitense ha sempre mostrato limiti molto evidenti, ma il suo vero e duraturo punto di forza è dato dal costituire un punto di riferimento ed un alleato per i gruppi reazionari ed affaristici di tutto il mondo. In questo periodo i media tendono anche a sopravvalutare l’effetto della destabilizzazione libica sui flussi migratori verso l’Italia.

Le barche cariche di immigrati non costituiscono però il canale principale del traffico della migrazione clandestina, in quanto rappresentano soltanto un atroce diversivo per distogliere l’attenzione dalle vere porte d’ingresso di questo traffico, che sono le banchine dei porti sotto il controllo militare statunitense. Nel porto di Napoli, ad esempio, la U.S. Navy controlla ormai più della metà delle banchine, gestite nel più assoluto segreto militare; tutto ciò per gentile concessione del governo D’Alema nel 1999. Gheddafi ha accettato di enfatizzare il suo ruolo di poliziotto anti-immigrazione perché costituiva un modo per vantare pubblicamente benemerenze nei confronti dell’Italia e della Unione Europea, ma bisogna separare le esagerazioni della propaganda dalle effettive dimensioni di quel ruolo. Le basi militari americane, da sempre, non svolgono soltanto una funzione militare, ma soprattutto di controllo dei traffici illegali, a cominciare dal traffico di eroina dall’Afghanistan.

Un elemento fisso di disturbo della comunicazione di questi giorni è costituito dal luogo comune della "amicizia", del rapporto personale condito di baciamano, fra Berlusconi e Gheddafi; perciò è divenuto uno scontato oggetto di polemica il lungo silenzio tenuto dal governo italiano circa la repressione che starebbe avvenendo in Libia. In realtà, per tutto ciò che riguarda l’energia, è l’ENI, e soltanto l’ENI, il detentore esclusivo e storico di ogni iniziativa della politica estera italiana. Anche i colossi UniCredit, Impregilo e Finmeccanica, per i loro affari in Libia, si sono agganciati alla cordata dell’ENI.

L’effettiva capacità di Berlusconi di sostenere il suo presunto asse preferenziale con Gheddafi si è potuta verificare a Bruxelles, quando il non-ministro degli Esteri Frattini si è accodato supinamente ad una posizione di condanna verso il regime libico, ispirata per di più da un Paese in palese situazione di conflitto di interessi come la Gran Bretagna, che nella vicenda ha sposato ovviamente le tesi della sua multinazionale del petrolio, cioè la ex British Petroleum, oggi Beyond Petroleum. Frattini e lo stesso Berlusconi si sono poi fatti ripetitori delle notizie di agenzia circa le repressioni che avverrebbero in Libia, nonostante che le testimonianze degli Italiani sfollati non le confermino affatto.

Dalle "rivelazioni" di Wikileaks è uscita l’immagine di un Berlusconi debole, nel ruolo passivo di yesman nei confronti degli Stati Uniti, pur di meritarsi pacche sulle spalle nei summit internazionali. Le mezze verità rischiano però di veicolare menzogne intere, e cioè l’idea che gli Stati Uniti si limitino ad approfittare della inconsistenza umana e politica di Berlusconi, mentre invece la chiave del colonialismo è proprio quella di creare nei Paesi colonizzati delle leadership deboli ed iper-corrotte.

Il problema non riguarda solo la ricattabilità di Berlusconi, ma i ricatti paralizzanti a cui vengono sottoposti i suoi avversari, sempre timidi ed esitanti nei momenti decisivi. Persino "Il Fatto Quotidiano" oggi fa finta di dimenticarsi di aver denunciato per tre anni che la vera stampella del governo Berlusconi è stato in effetti il Presidente della Repubblica, e lo stesso quotidiano risulta ora allineato all’opera di santificazione mediatica di Napolitano, omettendo la storia dei suoi ambigui rapporti con gli USA già dall’epoca in cui militava nel Partito Comunista Italiano.

In questi decenni l’ENI ha usato la sua potenza finanziaria per imporre i propri affari ai governi di turno lasciando loro la vetrina mediatica, una vetrina di cui Berlusconi ha abusato più di tutti perché costituiva l’unico modo per mascherare la sua pochezza. Ma la politica dell’ENI da tempo sta mostrando la corda, poiché risulta evidente che un governo fantoccio di servitù coloniale agli USA non soltanto non può difendere gli affari dell’ente in questi momenti di crisi acuta, ma addirittura costituisce un nemico in più.

FESSI COMUNI. La bufala delle Fosse Comuni in Libia.

Come già evidenziato nel blog di Debora Billi (che, una tantum, ringrazio) e come riportato da alcuni lettori anche in questo sito, le famose “fosse comuni” di Tripoli, in cui il crudele regime di Gheddafi avrebbe nascosto in fretta e furia i cadaveri dei manifestanti uccisi durante le fantomatiche repressioni, probabilmente non sono altro che l’ennesima bufala dei media. Una bufala, peraltro, stravecchia, già utilizzata diverse volte in passato – ad esempio in occasione della “rivoluzione” fasulla in Romania e delle finte stragi di kosovari ad opera dei serbi – per criminalizzare altri governi che gli Stati Uniti intendevano rovesciare con la complicità dei media da essi controllati. I servizi segreti USA avranno anche un’ottima organizzazione, ma sono del tutto privi di fantasia, quando si tratta di raccontare fregnacce con cui suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale.


Ciò che si vede con chiarezza dalle immagini di queste “fosse comuni” farlocche, è che esse tutto sono tranne che “comuni”. Si tratta infatti di buche singole, scavate con calma e perfino con una certa cura. I siti dei principali quotidiani parlano di “cimitero improvvisato” sulla spiaggia. Cimitero senz’altro, improvvisato no di certo. Si tratta infatti del noto cimitero di Sidi Hamed, che si trova in prossimità della spiaggia vicino al quartiere residenziale di Gargaresh, a Tripoli.
Le immagini provengono dal sito OneDayOnEarth.org, aperto nell’ottobre 2010 da due studenti di Los Angeles di nome Kyle Ruddick e Brandon Litman. E’ una sorta di “social network” delle immagini video, finanziato da una sessantina di ONG, nonché dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite. Una provenienza a dir poco sospetta, come sospetto è il tempismo con cui il sito è stato messo online poco prima dell’inizio delle rivolte nordafricane.
Inoltre, i giornali e la TV hanno accettato a scatola chiusa che si trattasse di immagini girate nei giorni scorsi, senza citare la minima prova a sostegno. In mancanza di fonti e di notizie attendibili, è perfino lecito sospettare che non si tratti affatto di immagini riprese di recente, bensì della documentazione di una delle numerose “sepolture collettive” dei migranti africani le cui imbarcazioni si capovolgono di frequente in prossimità delle coste libiche e i cui corpi vengono poi sospinti sulla spiaggia dalla marea. In particolare, proprio il cimitero di Sidi Hamed ha dovuto spesso occuparsi di questi incresciosi compiti, vista la frequenza di tali incidenti. Il fatto che nel filmato l’atmosfera appaia rilassata, che non si vedano manifestanti furenti o esagitati, né donne, né parenti piangenti o urlanti, fa pensare che si tratti appunto dei lavori di sepoltura di queste vittime sconosciute. Se Repubblica e gli altri fogliacci della stampa nazionale hanno elementi e fonti citabili che possano smentire quest’ipotesi, allora li presentino e sciolgano ogni dubbio. Altrimenti la smettano di aizzare contro il governo libico gli animi dei poveri fessi che ancora danno retta alle loro panzane. Se non non possono sostenere con prove fotografiche o documentali le accuse gravissime che vanno rivolgendo ad un legittimo governo straniero, tengano la ciabatta chiusa e ammettano che i massacri di cui vanno ciarlando esistono solo nella loro fantasia e che hanno l’unico scopo di preparare la strada, per via propagandistica, alle nuove carneficine – vere, in questo caso – che i loro padroni statunitensi hanno in serbo per il mondo.


Trato da: http://www.stampalibera.com/?p=22897

giovedì 24 febbraio 2011

Next Stop ... Algeria o Balcani?


Il nord Africa è in fiamme ormai da settimane prima la Tunisia poi l'Egitto... ora la Libia e poi?
E' lecito chiedersi come evolverà la situazione e quali altri paesi potrebbero essere coinvolti da questa reazione a catena che si è ormai innescata.
L'Algeria (rivolta "del pane" già accennata a gennaio) ed il Marocco sarebbero le più plausibili in ordine geografico... ma anche i meno vicini ma sempre caldi Balcani (work in progress in Grecia) ...
In una visione in cui "leggessimo" il tutto in chiave anti-italiana l'Algeria sembrerebbe essere la più probabile candidata, infatti se dalla Libia importiamo "solo" il 12 % di Gas del nostro fabbisogno, dall'Algeria ne importiamo il 33% !!! 
... ma sempre in chiave anti-italiana le rivolte potrebbero anche fermarsi in Libia... anzi la Libia potrebbe essere stato l'obiettivo ultimo fin dall'inizio, infatti con lo stato libico noi intratteniamo stretti rapporti economici molto importanti, infatti oltre alla parziale dipendenza energetica noi siamo il paese con la maggiore esportazione dalla Libia: il 49% delle esportazioni libiche verso l’Unione Europea sono a favore dell’Italia. Inoltre in questo contesto la partnership commerciale italo-libica fa patire in borsa molte aziende Italiane di diverso tipo (Eni, Impregilo, Unicredit ma anche Juventus, Fiat & Co). (Fonte: http://intermarketandmore.finanza.com/rapporti-libia-italia-ed-economia-quanto-pesa-la-crisi-24836.html).
Con le ultime vicende l' "attacco mediatico" orchestrato dai poteri forti contro L'Italia sembra quindi espandersi anche alla sfera economica.
Inoltre come se non bastasse continuano a filtrare dolosamente notizie che mettono in cattiva luce l'organizzazione (o disorganizzazione) politico-militare del nostro paese, infatti ieri campeggiava su tutti i maggiori mezzi di informazione la notizia che diverse navi da guerra italiane (tra cui una "particolare") sono in partenza dirette alle acque libiche mentre in altre occasioni si era riusciti ad essere molto più riservati e non far trapelare certe notizie così delicate.
Ma perchè gridare sempre al complotto ed alla motivazione geopolitica? Semplicemente perchè l'accanimento mediatico e la disinformazione sollevano i primi dubbi e portano i meno ingenui a porsi delle domande e fare delle considerazioni che quasi sempre portano a risposte eloquenti che tolgono ogni dubbio, infatti se talvolta è difficile sapere quale sia la verità, altrettanto spesso è facile riconoscere una menzogna. In questo caso ad avvalorare la nostra ipotesi oltre agli enormi interessi economici in gioco c'è la costante Disinformazione messa in atto dai media compiacenti come ad esempio in merito alla BUFALA delle fosse comuni (vedi http://www.stampalibera.com/?p=22897 ) e in merito al fatto di parlare dell'esorbitante numero di morti (10.000) senza avere nessuna prova effettiva o fonte attendibili con cui avvalorare tale informazione.

Ma la domanda resta una e una sola ... CUI PRODEST ? A chi giova?

Info Tricks

mercoledì 23 febbraio 2011

Tocca alla Libia: ecco perché e a chi conviene.

(...) Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.
Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.
Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello, da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.
La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipende proprio dal Nord Africa. L’esplosione “controllata” rischia di essere, comunque, devastante per gli interessi del nostro Paese*.
Non abbiamo scelta e l’Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile chiedersi: il prezzo è giusto?

Tratto da: http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=31330

*Il primo effetto della crisi libica per l’Italia è stata la sospensione della fornitura di gas libico attraverso il gasdotto Greenstream che collega la costa nordafricana al terminale di Gela. Una nota dell’Eni ne ha attribuito la causa ad una temporanea sospensione di alcune attività di produzione di gas naturale in Libia. L’Eni ha comunque assicurato di essere in grado di far fronte alla domanda di gas da parte dei propri clienti, considerato che la Libia copre appena il 12% del nostro fabbisogno. (...) L'Italia importa infatti gas da diversi Paesi, attraverso un sistema differenziato di fonti e gasdotti. Gli altri fornitori dell’Italia sono l’Algeria (33%), la Russia (30%) e l’Olanda (19%). (...)Ma al di là delle rassicurazioni del governo, la possibile involuzione della crisi libica con il precipitare del Paese in una guerra civile con un relativo vuoto di potere, potrebbe comportare conseguenze molto gravi tali da vanificare la ancora timida ripresa economica dei Paesi europei. L’aumento del prezzo del petrolio che ha ormai abbondantemente superato il tetto dei 100 dollari al barile per la qualità Brent, quella trattata sul mercato di Londra, farà peggiorare la bilancia commerciale, aumenterà l'inflazione e causerà pressioni sulle banche centrali ad alzare i tassi di interesse. Questo tipo di preoccupazioni sono particolarmente accentuate per il nostro Paese che, a causa del possibile effetto a macchia di leopardo, teme un blocco parziale o totale delle forniture non solo del gas libico ma anche di quello algerino (al terminale di Mazara del Vallo).  (...) Quanto ai fornitori alternativi, secondo le valutazione della Snam (controllata dell’Eni che gestisce la rete nazionale del gas), al momento esistono margini per aumentare le importazioni dalla Russia, anche se in tale ipotesi potrebbero esserci conseguenze economiche per gli operatori che non hanno ancora ottenuto rinegoziazioni dei contratti con Gazprom.(...)
Tratto da: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=6662 (Il gas libico non arriva più in Italia).

Parla Gheddafi:
Io sono il leader di una rivoluzione, non sono un presidente.

Muammar Gheddafi "Io sono il leader di una rivoluzione, non sono un presidente. Non ho un mandato da cui dimettermi", e perciò morirà da martire, come un combattente che resiste fino all'ultima goccia di sangue.
Per settantacinque minuti il leader libico ha urlato rabbioso contro i "ratti che hanno invaso le strade", contro le "bande di giovani drogati e ubriachi" che assaltano le caserme e le stazioni di polizia. Il Colonnello si è rivolto ai suoi sostenitori che lo ascoltavano nella Piazza Verde di Tripoli: "Uscite dalle vostre case, scendete in strada. Cacciate i nemici, andate a prenderli fin dentro le loro tane".
"Indossate una fascia verde come riconoscimento, a partire da domani andate e combattete, ripulite la Libia casa per casa!". "Liberate Bengasi!" È il vero punto di non ritorno, è il momento dello scontro finale e, presumibilmente, il sangue scorrerà a fiumi. "Finora non ho ordinato che si sparasse neanche una sola pallottola, ma quando lo farò, tutto andrà in fiamme". E poi si rivolge ai famigliari dei giovani manifestanti: "Sono giovani, non hanno colpe, sono stati strumentalizzati, drogati e ubriacati dai servitori del diavolo. Riportateli a casa". Perché da domani non ci saranno più scusanti.
Dalla sua residenza di Tripoli - poi diventata monumento nazionale - bombardata "da 170 caccia americani" nel 1986, il rais di Tripoli ha rivendicato l'orgoglio nazionale della Libia, un paese "leader mondiale che oggi temono tutti". I suoi attacchi sono trasversali, i suoi nemici vanno dal diavolo occidentale - Usa e Gran Bretagna - agli estremisti islamici che vorrebbero trasformare la Libia in "una base di Al-Qaeda". "Volete questo?". "Che gli Stati Uniti occupino la Libia come hanno fatto con Afghanistan, Iraq e Somalia per sradicare l'estremismo islamico?" La telecamera della Tv di stato indugia più volte sul monumento posto all'esterno della residenza: il pugno dorato libico che stritola un caccia americano.
Il discorso è sempre stato, per il resto, sul binario dell'attacco: contro l'Occidente che vuole riaprire l'epoca del colonialismo, contro le emittenti Tv arabe che hanno dato al mondo "una visione distorta del popolo dei coraggiosi, della gioventù patriottica", che è il vero volto della Libia, non quello mostrato dai codardi pagati da "un gruppo di malati che agisce dal di fuori".
"Da domani" assicura Gheddafi, "l'ordine e la sicurezza verranno ristabiliti in tutto il paese". Il leader ha dato il comando: esercito e polizia dovranno schiacciare la rivolta.

lunedì 21 febbraio 2011

Le rivoluzioni franco-britanniche.


"Il Nord-Africa è in fiamme, un'escalation di rivolte trasformatesi ben presto in guerre civili. Questa è la guerra del Mediterraneo, volta a tracciare le nuove sfere di influenza energetiche e sottrarre ogni controllo all'Italia". Questo quanto dichiarato da Michele Altamura, direttore dell'Osservatorio Italiano, secondo il quale sono ormai evidenti le manipolazioni delle campagne di disinformazione e dei falsi giustizialismi, volti a creare le "false rivoluzioni colorate" e così delle nuove false capitali islamiche. Un grande ruolo è ora svolto da Internet e dai social-network che rivelano così un volto molto pericolo, ossia di strumento per la creazione di assembramenti e riunioni di protesta, così come per il coordinamento delle grandi masse. In gioco vi sono gli interessi dei giganti petroliferi degli antichi colonizzatori franco-britannici dell'Africa, che con Total, Chevron, Exxon, Shell e BP hanno tracciato i propri imperi energetici, decidendo ora la destituzione di quei Governi che loro stessi hanno contribuito a creare. L'Italia, con i suoi piccoli giganti, è ora costretta ad arretrare sempre di più, vedendosi quasi costretta a lasciare Tripoli e la lunga serie di cooperazioni economiche sottoscritte con Gheddafi, mentre da sola dovrà affrontare l'ondata dei rifugiati che premono sulle coste di Lampedusa.


Mappa energetica dell'Africa musulmana



Tali eventi non potranno non avere un'eco anche nei Balcani, dove i Governi dalla stabilità già precaria rischiano di essere bersaglio di manifestazioni incendiarie, viste le implicazioni etnico-religiose sempre in gioco. Si ingrossano così i forum e i blog che fomentano odio, malcontenti, scontri, utilizzando ogni banale pretesto per accendere le micce degli scontri. Dall'aumento dei prezzi al congelamento delle pensioni, dalla costruzione di una Chiesa all'espropriazione di un terreno. Le zone calde nell'area balcanica sono tante, primo tra tutti il Sangiaccato che rivendica l'autonomia e maggiori diritti per l'etnia bosniaco-musulmana, seguito poi dalla Bosnia Erzegovina, polveriera in cui vengono trafficate troppe armi e troppo esplosivo, ed infine la Macedonia che non ha ancora risolto l'equilibrio interno macedone-albanese. I governi, in questa guerra silenziosa, non hanno strumenti per monitorare queste nuove realtà, in cui vi sono programmi specializzati volti ad innescare conflitti inter-etnici ed interreligiosi, tutto questo gestito in maniera trasnazionale. "I media non rappresentano più la libertà di stampa, ma sono diventati solo ed esclusivamente dei cartelli di disinformazione e di provocazioni, sono delle società private con degli interessi economici. La nuova "rivoluzione internettiana" serve unicamente a cambiare le zone di influenza e a mettere al potere governi-fantoccio ingovernabili - afferma Altamura -.L'Italia resta a guardare impassibile questo scenario paradossale, in cui sia la Russia che l'America o l'Inghilterra, e persino l'ultimo paese sperduto, possono infliggere ovunque un qualsiasi colpo.



Mappa presenza delle compagnie energetiche



Tratto da: http://etleboro.blogspot.com/2011/02/le-rivoluzioni-franco-britanniche.html

domenica 20 febbraio 2011

Il mondo condanna il Veto Usa alla risoluzione anti-Israele.


NEW YORK - Con 14 voti a favore e solo uno contrario ma decisivo, quello degli Stati uniti, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha bocciato la risoluzione che condanna Israele per aver continuato a costruire insediamenti a Gerusalemme est e nei territori palestinesi. Immediate le reazioni polemiche che si sono susseguite per tutta la notte fino a questa mattina. Israele ha lanciato un appello affinchè riprendano i negoziati diretti con i palestinesi. ''Israele apprezza profondamente la decisione del presidente Obama di porre il veto alla risoluzione del consiglio di sicurezza'', si legge in una nota diffusa dall'ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. Dopo il veto degli Usa l'autorità nazionale palestinese ha dichiarato di voler ''rivedere il processo negoziale'' con Israele. ''Si tratta di una decisione sciagurata e squilibrata, che influenzerà la credibilità dell'amministrazione americana - ha dichiarato Yasser Abed Rabbo, segretario generale del comitato esecutivo dell'Olp, uno dei principali negoziatori per l'Anp, che ha anche detto che i palestinesi intendono ora ''rivedere'' il processo negoziale con Israele. Da Bruxelles, Catherine Ashton, il capo della diplomazia europea, ha espresso il suo ''rammarico'' per l'impossibilita' di ''raggiungere un consenso sulla risoluzione sugli insediamenti al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite''. ''La posizione dell'Ue sugli insediamenti (ebraici), compresi quelli a Gerusalemme est - ha sottolineato il capo della diplomazia dell'Unione europea - è chiara: sono illegali secondo il diritto internazionale, costituiscono un ostacolo alla pace e rappresentano una minaccia alla soluzione dei due stati''. La Ashton ha quindi ribadito la necessità di ''fare tutto il possibile per una rapida ripresa dei negoziati tra le parti''. "Rammarico'' espresso anche dall'Italia tramite una nota della Farnesina. ''L'italia - si legge - si riconosce pienamente nella posizione del Consiglio affari esteri dell'Ue del 13 dicembre 2010 che esprime rammarico per il mancato rinnovo della moratoria e reitera come gli insediamenti israeliani, compresi quelli che si trovano a Gerusalemme est, siano illegali secondo il diritto internazionale e costituiscano un ostacolo alla pace, ripetendo a tutte le parti l'invito ad astenersi da azioni unilaterali e dalla violenza''. In questo senso, prosegue la nota, ''condividiamo il contenuto della risoluzione presentata al riguardo dal gruppo arabo in Consiglio di sicurezza. siamo tuttavia convinti che nell'attuale congiuntura del processo di pace e di rivolgimenti nella regione, l'iniziativa non risulti utile per facilitare progressi. L'italia continua a credere nella rapida ripresa del dialogo come strumento migliore per raggiungere la soluzione dei due stati sulla base dell'accordo fra le parti''.

Iran/Italia: Boroujerdì trionfa nel dibattito con i deputati italiani, silenzio ‘strano’ dei media italiani.


Come sempre i precisi ed attenti media italiani non ne hanno fatto parola ma giovedì il presidente della Commissione Sicurezza ed Esteri del Parlamento iraniano, in visita in Italia, ha risposto in maniera “esemplare” a certe critiche espresse dai deputati italiani nel colloquio con lui, risposte che se venissero riferite al grande pubblico, farebbero svanire tutti i tabù e i falsi stereotipi costruiti sull’Iran dai media.

All’inizio un deputato italiano protesta alla richiesta di processo a Mousavì e Karroubì invocata dal Parlamento iraniano. Alaeddin Boroujerdì risponde: “Io chiedo a voi, in tutti i parlamenti del mondo i deputati protestano e chiedono processi nei momenti opportuni perchè svolgono la funzione di voce del popolo. Per questo la vostra protesta non è razionale”. Un’altro parlamentare italiano ribatte che processare chi una volta era primo ministro o presidente del Parlamento non è accettabile ma Boroujerdì risponde: “Noi siamo legislatori e difensori della legge e non ci dobbiamo lasciar trasportare dai sentimenti e dai punti di vista politici. In Italia il presidente del Consiglio non verrà sottoposto a processo? L’ex presidente sudcoreano non è andato in prigione? Bettino Craxi non venne esiliato in Tunisia? Mousavì e Karroubì sono al di sopra della legge? Queste due persone, come qualsiasi altro cittadino, verranno sottoposte a processo sè la giustizia crederà che abbiano violato le leggi. E come qualsiasi altro cittadino verranno processate, avranno un giudice, e tutto procederà come vuole la legge”.

Rispondendo ad un’altra domanda sul terrorismo Boroujerdì ha spiegato: “Oggi l’Italia chiede l’estradizione di Battisti perchè 30 anni fà quest’uomo ha ucciso 4 italiani. I Munafeqin o gli MKO hanno ucciso 14 mila iraniani ma voi avete escluso il loro nome dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Questo significa sostegno al terrorismo. Noi siamo realmente indignati per questa azione dell’Unione Europea”.

Rispondendo ad una domanda sulle condizioni delle minoranza religiose Boroujerdì ricorda: “Gli ebrei con 20 mila anime in Iran hanno un loro deputato al Parlamento ma i musulmani italiani con almeno il triplo di questa popolazione non hanno alcun rappresentante nel vostro Parlamento”. “Anche cristiani e zoroastri hanno rappresentanti al Parlamento, ha detto Boroujerdì. Il problema è che voi basate le vostre considerazioni su informazioni inesatte che poi vi portano ad emanare anche risoluzioni di condanna alla situazione dei diritti umani in Iran”.

Rispondendo alla domanda di una parlamentare sulle condizioni della donna in Iran Boroujerdì risponde: “Se secondo voi ‘diritti delle donna’ significa permettere matrimoni tra donne, un qualcosa che purtroppo viene riconosciuto dalla legge in alcuni paesi europei, oppure significa che il corpo della donna venga sfruttato per fare la pubblicità, la informo che noi riteniamo tutto ciò ‘violazione dei diritti’ della donna e un’offesa alla sua dignità. La donna ha una posizione elevata nel pensiero dell’Islam e non ci sono limiti per la sua ascesa ai più alti gradi scientifici e societari”.

La delegazione iraniana, al termine del confronto di idee durato due ore ha proposto al presidente della Commissione Esteri del Parlamento Stefano Stefani che le commissioni Esteri di alcuni parlamenti europei partecipino ad una conferenza a Teheran in maniera che le verità sull’Iran possano essere conosciute, proposta accolta dai deputati italiani. Il problema è che i tanto chiaccherati programmi nella tv italiana e dedicati alla politica non possono dire queste verità, perchè in quel caso si andrebbe contro le politiche dettate dai padroni. Se però invece di un esponente iraniano, in Italia avesse parlato di Iran un esponente americano o israeliano, ora sarebbe sulla prima pagina di tutti i giornali. Lo strano fenomeno vi dice qualcosa?

Tratto da: http://www.stampalibera.com/?p=22645#more-22645

venerdì 18 febbraio 2011

Kaczynski, la Polonia e le ipotesi del complotto sovietico.

Lech Kaczynski, un uomo scomodo – Tutti riconoscono che Kaczynski è stato uno dei politici più controversi d’Europa. Eletto presidente della Polonia nel 2005, dopo una campagna elettorale improntata alla difesa dei valori nazionali e di un stato forte, il leader del partito ultraconservatore PiS (Prawo i Sprawiedliwosc, in italiano Legge e Giustizia) nomina nel 2006 il fratello gemello Jaroslaw (dal quale si distingue solo per un neo alla sinistra del naso) premier, dando vita a quella che sarà definita sardonicamente come “repubblica monozigote”. Populismo, nazionalismo, cattolicesimo, anti-comunismo ed euroscetticismo sono le coordinate entro le quali si colloca la Polonia nell’era Kaczynski.Lech è molto abile ad incarnare il sentimento di identità nazionale polacca, che pure riconosce nella Russia e nella Germania i nemici storici della Polonia . Rinfocolando quel rancore mai sopito nella popolazione del Lebensraum, terra di confine compresa tra le due superpotenze, Kaczynski conquista la simpatia di molti polacchi, conquistando l’elettorato tradizionalista e quello delle zone rurali. Il presidente mal sopporta anche la comunità gay: da sindaco di Varsavia impedisce che nel 2002 si tenga il Gay Pride; tramite il ministero della Pubblica Istruzione vieta la “diffusione del comportamento omosessuale” a scuola. Le sue ossessioni omofobiche lo porteranno ad incassare persino una condanna dalla Corte europea. Da convinto anti-comunista (secondo solo a Berlusconi) e al grido di “lotta alla Russia” avvia un vero e proprio programma di decomunistizzazionedella Polonia , dando il via nel 2007 alla “lustracja”: 700000 polacchi devono rispondere ad un questionario sulla loro eventuale collaborazione con il regime sovietico. L’iniziativa viene tuttavia bocciata dalla Corte Costituzionale.Appoggiando con determinazione i governi antisovietici, Lech Kaczynski instaura stretti rapporti con Georgia ed Ucraina, convinto che una Nato più forte possa scoraggiare la Russia dal riaffermare la propria influenza sull’est europeo. Lech Kaczynski è stato tra i più pertinaci sostenitori dello scudo spaziale americano in Polonia , tanto odiato dai sovietici. Da euroscettico osteggia la leadership tedesca, minaccia con il diritto di veto, cerca di far valere il peso della Polonia (fino ad invocarne i tanti caduti come valore aggiunto), non entra nell’eurozona e non adotta il trattato di Lisbona, pur ratificato dal suo stesso parlamento. Alla luce di tutto questo Lech Kaczynski si dimostra sine dubio una vera e propria spina nel fianco tanto ad Ovest quanto più ad Est. Un personalità sulla quale si continuerà a discutere animatamente per ironia del caso anche sulla data del funerale o sul luogo della sepoltura.


La complessa situazione geopolitica ed il fantasma di una seconda guerra fredda – Scrive Panebianco sul Corriere “Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell’est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l’Unione (europea) sia capace di dare loro adeguata protezione ed una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell’orso russo”. Le immature democrazie post-sovietiche temono un possibile risveglio del gigante rosso e non trovano nell’UE sufficiente rassicurazione. Ora è alquanto evidente “l’indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti”e diviene sempre più profonda la rottura dell’asse franco-tedesco che assicurava la continuità del processo di europeizzazione dei paesi dell’est . In quest’ottica è da connotarsi anche l’affermazione di movimenti ultraconservatori e nazionalisti (come il PiS dei Kaczynski in Polonia o, più recentemente, il Fidesz e il Jobbik in Ungheria) che ben si radicano in uno scenario di insicurezza generalizzata nell’area post-sovietica. L’orso russo s’è destato dal letargo e cerca di riappropriarsi della propria influenza oltre gli Urali. Stiamo assistendo ad un cambiamento dello scenario geopolitico, un rollback in orbita sovietica, accompagnato al fallimento delle politiche di contenimento della Russia: dell’asse filo-atlantico resiste solo la Georgia (per quanto ancora?). La Russia si riprende, dopo l’Ucraina, anche il Kirghizistan, dove si trova la base di Manas (logisticamente fondamentale per la tenuta della campagna USA in Afghanistan) che i sovietici non tanto velatamente hanno intenzione di togliere agli Stati Uniti. Gli accordi Start-1 e Start-2 tra Washington e Mosca, volti alla riduzione degli armamenti nucleari, sembrano sempre più false partenze. Il governo russo ha emesso una dichiarazione unilaterale con la quale pone una condicio sine qua non per la finalizzazione del nuovo accordo Start: il nuovo scudo Usa non deve minacciare la capacità deterrente del potenziale nucleare russo. Questa dichiarazione ha acceso gli animi dei repubblicani che non sono convinti della reale disponibilità di Medvedev allo Start-2.


Ma Obama li rassicura dicendo che lo scudo non è da intendersi in chiave anti-sovietica, ma anti-Iran (che al momento ancora non ha armi nucleari). La morte di Kaczynski potrebbe far saltare il protocollo, firmato poche settimane fa tra USA e Varsavia, che prevede l’installazione in Polonia dei missili balistici Patriot.Un altro problema non secondario, anzi fondamentale, è la smania russa di consolidare ulteriormente il controllo sulle risorse energetiche in Asia centrale. Nuovi accordi con Kazakistan e Turkmenistan (maggiori produttori di gas naturale nella regione) e la dipendenza energetica dell’Europa rafforzano inevitabilmente il Cremlino. La ritrovata sintonia tra Russia e Germania sancita dall’inaugurazione della costruzione del gasdotto NordStream, ne è la prova. L’asse Berlino-Mosca ed il gasdotto baltico indeboliscono proprio i paesi dell’Est, perché viene sostanzialmente impedito loro di sfruttare una fonte di ricchezza imponderabile. Nel contempo la povera Polonia deve salutare oltre al suo establishment (passato misteriosamente a miglior vita) anche la costruzione dello Yamal II, che avrebbe affiancato e raddoppiato la capienza del gasdotto Yamal (che unisce Russia ad Europa via Polonia). Nonostante il NordStream sia di vitale importanza per l’UE, il consorzio che ne gestisce la costruzione è di proprietà per il 51% della Gazprom (dunque di Mosca) e per il 49% dei tedeschi della E.On. e della Wintershall.
Ipotesi di complotto – L’animo dei polacchi è a buon diritto diffidente, ne hanno passate tante nel corso dei secoli. Ultima sciagura in ordine temporale è quella della caduta del Tupolev Tu-154 che trasportava l’ossatura dello stato polacco, presidente in testa, alla commemorazione delle vittime dei sovietici nel 1939 a Katyn. L’incidente ha qualcosa di strano, come può essere per qualsiasi incidente aereo di per sè. Ma perchè s’erano recati proprio a Katyn? In verità alcuni giorni prima v’era stata una cerimonia commerativa ufficiale alla presenza del premier polacco Donald Tusk e del corrispettivo russo Vladimir Putin (sì, quello del lettone). Questo evento ha una valenza storica non indifferente, poichè è di fatto la prima volta che un leader russo partecipa a questa celebrazione che ricorda l’eccidio sovietico: un nuovo step nel percorso di disgelo russo-polacco intrapreso da Tusk. Ma Kaczynski e molti altri rigettano la posizione debole di Tuck e preferiscono andare a Katyn per una cerimonia privata e priva della delegazione russa. Giammai con i russi! Fatale gli fu questo motto interiore e foriera di morte la Russia stessa. Non voglio credere, e persuadere nessuno a farlo, nel complotto, ma degli elementi di incongruità, è inutile negarlo, vi sono. Sicurame s’è creata anche una congiuntura geopolitica tale che, oltre la solidarietà di circostanza, la morte di Kazcynski appare quasi “caduta dal cielo” (come il suo aereo del resto). A Mosca era indubbiamente odiatissimo ed era considerato un vicino scomodo, spiccatamente filo-americano e geneticamente anti-russo. I russi sostengono che l’incidente sia stato determinato da “un errore da parte dell’equipaggio durante le manovre di atterraggio” all’aeroporto di Smolensk. Morto Kaczynski entra in carica Bronislaw Komorowski, Maresciallo del Sejm (equiparabile al nostro Presidente della Camera), che, a differenza del presidente, è stato a lungo alleato di Mosca. Ricapitoliamo l’accaduto: un aereo di fabbricazione russa, di recente totalmente revisionato con successo (ce lo assicura il russo Alexei Gusev, direttore generale della russa Aviaktor Factory) in Russia (a Samara), con dei noti anti-russi polacchi a bordo precipita in Russia, quando questi dovevano recarsi a commemorare 22000 ufficiali polacchi anti-russi, uccisi dai russi (che davano la colpa ai nazisti), perchè nessuna ricucitura con la Russia era ammissibile. Farà luce sull’accaduto un’inchiesta ovviamente russa. Beffa del destino? Il fatto che l’aereo è stato revisionato nel dicembre 2009 e sembrava essere in perfetto stato è dire tutto e niente. Ma molti sono convinti che non sia difficile manomettere un altimetro (cosa che può causare concreti problemi a chi è costretto a navigare a vista). Un altro particolare fatale è che l’aeroporto di Smolensk non è dotato di uno speciale radar anti-nebbia comune in Occidente. La pista non era visibile per la nebbia e questo radar, che non c’era, sarebbe servito per finalizzare l’atterraggio. Dei bambini, che giocavano lì vicino, hanno riferito che l’aereo ha volato per diverso tempo molto basso, prima di cadere. Alcuni hanno riferito di aver sentito distintamente due esplosioni. Già due esplosioni! Ora, non sono esperto di esplosioni, ma mi sorgono spontaneamente delle domande. Cosa può averle determinate? Il carburante. Ed era sufficiente il carburante in serbatoio per determinare due esplosioni e disintegrare completamente l’aereo, di cui si conservano solo frammenti e parti delle ali e dei reattori? I frammenti dell’aereo, tra l’altro, sono stati trovati per diverse miglia intorno al luogo della caduta. Il New York Times ci dice che l’inchiesta russa verte sulla possibilità che Lech Kaczynski abbia fatto pressioni sul pilota per atterrare ugualmente, nonostante le condizioni fossero proibitive.


Ma è intervenuto il procuratore polacco Andrzej Seremet a smentire seccamente la ricostruzione russa: non vi sono al momento delle indicazioni tali che lascino concludere che i piloti del Tupolev abbiano subito pressioni per atterrare, nonostante le condizioni avverse. Anche la sbobinatura delle scatole nere ha escluso categoricamente che siano state esercitate delle pressioni sui piloti, affinchè atterrassero ugualmente, incuranti delle condizioni meteorologiche sfavorevoli. Il fatto che si siano tentati anche quattro atterraggi prima del tragico epilogo è anomalo, in quanto, di solito, tre sono le prove consentite in queste condizioni climatiche, poi si cambia sede d’atterraggio.Così non è stato. Staremo a vedere gli esiti delle inchieste in corso, memori del fatto che “Medved capisce che la Guerra Fredda è finita, Putin ancora no”. L’unica cosa che Putin potrebbe fare per allontanare l’ombra di ogni sospetto sarebbe quella di far partecipare attivamente la Polonia alle indagini. Sul Times si propone di “invitare esperti polacchi a essere partecipi e testimoni di ogni aspetto delle indagini”, ricordando “Come il massacro di Katyn e la morte del generale Sikorski, l’incidente Smolensk verrà a rappresentare un’altra pietra miliare nella tragica storia della Polonia . L’orrore di Katyn è stato nascosto per mezzo secolo dietro le menzogne sovietiche; il destino di Sikorski è stata oscurato, per troppo tempo, dal segreto britannico. Questa volta la Polonia dovrebbe avere il diritto di decidere che cosa è realmente accaduto”. Con buona pace di Kaczynski la Russia potrà aggiungere al pallottoliere anche la Polonia, dopo l’Ucraina ed il Kirghizistan. E al di là delle fantasie del complotto o dell’incidente si ha la concreta sensazione che qualcosa sia inesorabilmente mutato.

Tratto da: http://www.caffenews.it/?p=7833

giovedì 17 febbraio 2011

L’Italia? Un deposito nucleare.



E’ una storia nota, ma la ripetiamo, anche a costo di sembrare monomaniaci: sono centinaia gli ordigni nucleari occultati in Italia da oltre mezzo secolo e pronti ad essere utilizzati contro altre nazioni su semplice ordine Usa.

E dire che appena dieci giorni fa, il 7 febbraio, il governo e la Duma di Mosca sono tornati a chiedere agli Stati Uniti di “rimuovere le proprie armi nucleari e smantellare le infrastrutture costruite per loro nelle basi insediate in territorii straniero”. Come d’obbligo in Occidente, la notizia è stata rimossa dalle “informazioni” graziosamente donate dagli “autorevoli” media italiani, molto più interessati ad amplificare le gesta delle varie Ruby o Brenda. Una tale “rimozione” è utile a chi comanda davvero l’Italia: oltre il 70 per cento dei nostri concittadini, infatti, ignora l’esistenza del potenziale bellico nucleare sparso sul territorio italiano. E che secondo gli stessi rapporti del Pentagono è pari a “un impatto esplosivo di distruzione di oltre il 50 per cento del territorio” nazionale.

Basi di occupazione che, si badi bene, non sono soltanto quelle “tre o quattro” - Aviano, Ederle, Ghedi Torre, Napoli.. - che più o meno anche i più distratti conoscono dai tempi dell’Allied Force in Italy, ma un centinaio di più.

Come è noto - anche grazie ad una deliziosa, si fa per dire, “circolare Trabucchi” che rimuove ogni ostacolo al movimento di uomini e mezzi militari “alleati” sul nostro territorio - i piloti statunitensi possono decollare da un momento all’altro con armamenti atomici capaci di regalare agli obiettivi “ostili” decisi da Washington una forza distruttiva che moltiplicherebbe per 900 volte l’effetto prodotto, a Giappone già sconfitto, dagli Usa su Hiroshima e Nagasaki.

Si sa. Gli americani hanno il dovere di portare la democrazia, costi quel che costi. Il placet a simili “operazioni”, peraltro, è stato già scritto e ben definito dal Nuclear Posture Review del Pentagono: gli Usa non escludono la possibilità di impiegare preventivamente armi nucleari contro gli Stati da loro definiti “canaglia”. Un possibile obiettivo? Naturalmente l’Iran: un “potenziale”... Nemico Nucleare.

Ma come mai l’Italia, allora, anche per difendere la sua pace, la sua sicurezza, e non diventare a sua volta obiettivo di ritorsioni, non “restituisce agli Usa” le testate atomiche, come già fatto da Canada, Grecia, Danimarca e Islanda?

Ma perché abbiamo perso la guerra, nel 1945, e siamo tuttora loro prigionieri, siamo in cattività controllata. Elementare.

martedì 15 febbraio 2011

11 SETTEMBRE 2001

"E' difficile sapere quale sia la verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità."

Albert Einstein.
LA VERSIONE UFFICIALE 
 
L'11 settembre 2001, diciannove terroristi arabi suicidi pieni di un generico odio verso la libertà e la democrazia americana hanno dirottato (armati di taglierini) quattro aerei di linea (per la precisione due Boeing-757 e due Boeing-767 della American e della United Airlines) e ne hanno fatti schiantare due contro le Torri Gemelle del World Trade Center (WTC) di New York, che sono poi crollate in un modo che se davvero non ha impiegato esplosivi allora ha violato varie leggi fisiche, e un terzo contro il Pentagono, per mostrare la propria devozione ad Allah e punire il blasfemo impero capitalista americano.

Il quarto (il volo UA-93) a quanto ci è stato riferito si è schiantato al suolo nella Pennsylvania occidentale, dopo che i passeggeri hanno contrastato i terroristi, li hanno sopraffatti e in un gesto di eroismo si sono sacrificati schiantandosi in un campo deserto per evitare altre morti.

Poi, circa sette ore dopo il crollo delle Torri Gemelle, un terzo grattacielo, il WTC-7, ha deciso di crollare sulla propria pianta in sei secondi e mezzo in un modo del tutto identico a una demolizione controllata che, se non ha coinvolto esplosivi come afferma la versione ufficiale dei fatti, ha violato anch'esso molte leggi fisiche.

Due giorni dopo questi avvenimenti, l'FBI ha tirato fuori dal cilindro, in modo tuttora imprecisato, i nomi e le identità dei 19 dirottatori e del mandante, tale Osama bin Laden, e da allora quell'uomo e quei diciannove volti sono per tutto il mondo i colpevoli del più grande attentato terroristico della storia (nonostante bin Laden abbia sempre negato ogni coinvolgimento e si sappia da anni che molti dei presunti dirottatori sono probabilmente ancora vivi e innocenti).

Tutto abbastanza semplice e lineare, insomma.

Senonché sono state notate da molte persone (cioé da tutti quelli che si sono fermati un attimo a ragionarci su), decine di incongruenze e fatti inspiegabili, che secondo migliaia di persone sarebbero più che sufficienti a giustificare un'altra indagine (stavolta indipendente e priva di intromissioni governative) sui fatti di quel giorno.

Ora, lasciando stare speculazioni e ipotesi, per loro stessa natura fallibili, veniamo alle incontestabili e per forza oneste prove AUDIOVISIVE (filmati e fotografie ufficiali) disponibili a chiunque dall'11 settembre 2001, e analizziamole nel dettaglio basandoci sulle leggi fisiche che governano il nostro universo per capire cosa ha originato tutti questi dubbi e queste teorie "complottiste", tenendo a mente che immagini e fatti non mentono mai.
Gli uomini invece spesso.

ATTENZIONE:
Se pensate di trovare in queste pagine la vera storia dell'11 settembre 2001 e come si sono svolti davvero i fatti, passo per passo, vi sbagliate. Commettete un errore banale ma molto comune. Nessuno, a parte ovviamente chi ha organizzato tutto, può sapere come si sono svolti precisamente i fatti di quel giorno. Non c'è modo di scoprirlo. Si possono al massimo formulare teorie, coerenti e probabili quanto volete, dati gli indizi in nostro possesso (che a volte possono essere decisamente notevoli), ma non certe, perchè semplicemente non esiste nessun modo di verificarle al 100%. Il problema è tutto qui. (Fa eccezione la demolizione controllata del WTC, perché a riguardo abbiamo ormai prove certe, sia fisiche che materiali.)
Nessuno è in possesso di tutta la verità su cosa sia successo realmente l'11 settembre 2001, e vi consiglio caldamente di diffidare da chiunque affermi di conoscerla, perchè è di sicuro un millantatore inaffidabile.

NON POSSIAMO SAPERE COSA SIA SUCCESSO DAVVERO (non con i mezzi a nostra disposizione), a meno che i colpevoli non decidano di confessare (cosa molto improbabile).

POSSIAMO PERO' SAPERE COSA NON PUO' ESSERE SUCCESSO, perchè leggi fisiche e fatti ben precisi lo impediscono senza ombra di dubbio.

Le analisi qui presenti, rigorosamente scientifiche e razionali, esaminano ogni aspetto della storia ufficiale e conducono tutte alla stessa conclusione: le cose non possono essere andate come afferma la versione ufficiale dei fatti. Semplicemente, la spiegazione ufficiale non è scientificamente possibile. Ce lo assicurano la matematica, le proprietà dei materiali in gioco, le regole ingegneristiche e la fisica più basilare.

Con la dimostrazione della falsità della versione ufficiale, lo scopo di questo sito è pienamente raggiunto. Non intendo fare di più, perchè non è possibile fare di più. Dopotutto, il semplice fatto che la storia ufficiale dell'11 settembre 2001 è in realtà completamente falsa, e che negli ultimi anni sono state condotte (e si stanno tuttora conducendo) in tutto il mondo guerre basate su una clamorosa menzogna che sono costate e costeranno la vita a centinaia di migliaia di persone, oltre a modificare sensibilmente l'assetto geopolitico mondiale, mi sembra già una conclusione sufficientemente traumatica.

In questo sito, quindi, non troverete come sono andate le cose. Troverete come non sono andate.

Se vi sembra una cosa abbastanza importante da giustificare il tempo che richiede, buona lettura.

L'INTERESSANTE DOSSIER, RICCO DI IMMAGINI E VIDEO ELOQUENTI CONTINUA SU:
 
MOLTO MOLTO INTERESSANTE ANCHE:
 
  INFINE UN VIDEO CHE NON HA BISOGNO DI PRESENTAZIONI:

9/11 INGANNO GLOBALE


lunedì 14 febbraio 2011

Il mistero del Moby Prince.

La sera del 10 aprile del 1991, nella rada del porto di Livorno, avvenne un evento tragico.
Un traghetto appena salpato e diretto ad Olbia, in Sardegna, di nome “Moby Prince”, colpì in pieno una petroliera dell’Agip che si trovava alla fonda, la “Agip Abruzzo”.
Lo scontro fu tremendo e il traghetto, investito dal petrolio fuoriuscito dalla falla apertasi nella petroliera, iniziò a bruciare come una torcia.
Morirono 140 persone, solo un uomo riuscì a salvarsi.
La versione ufficiale dell’accaduto è la seguente: quella sera c’era una fitta nebbia davanti Livorno e inoltre era in corso una importante partita di calcio (precisamente la finale di coppa UEFA Juventus-Barcellona), che l’equipaggio della Moby stava seguendo in tv; dunque la nebbia e la disattenzione sarebbero state le cause della tragedia, oltre a qualche difetto nel sistema radar…
Questa la versione ufficiale, data dalla capitaneria di porto di Livorno solo 10 giorni dopo il disastro, e confermata dal processo durato per due anni, terminato nel 1997 con l’assoluzione di tutti gli imputati (uomini della petroliera e responsabili dei soccorsi, arrivati con molto ritardo).
Ma sono tanti i punti oscuri su cui non si è affatto indagato, se non in modo superficiale, e sono tante le stranezze di quella tremenda notte, tanto che leggendo libri-denuncia come quello di Enrico Fedrighini “Moby Prince, un caso ancora aperto”, che hanno fornito prove grazie alle quali il processo verrà riaperto (notizia del 13ottobre), fanno apparire quella storia come un incredibile e intricato giallo internazionale. Ma vediamo qualcuno dei punti più importanti che smontano la tesi della fatalità e della distrazione dell’equipaggio.



PRIMO. Da numerose testimonianze risulta che quella notte non c’era affatto nebbia sul mare davanti Livorno.
SECONDO. Non c’era nessuna televisione nella plancia di comando del Moby Prince, e quindi anche la tesi della partita “distrattrice” sarebbe falsa.
TERZO. Da alcune barche ancorate in rada furono viste delle navi allontanarsi rapidamente dal luogo della collisione, mentre già il Moby bruciava. Perché non prestarono soccorso? E soprattutto che ci stavano a fare lì, quando ufficialmente non dovevano esserci?
QUARTO. Da un’analisi attenta risulta che il Moby Prince colpì la petroliera mentre tentava di rientrare in porto, e non mentre se ne allontanava! Perché questo dietrofront?
QUINTO. La “scatola nera” posta sul timone del traghetto scomparve dal relitto, così come fu stranamente tagliato il nastro amatoriale girato da un passeggero del traghetto, poi morto nell’incendio, proprio nei minuti del disastro.
SESTO. Quella sera, nella rada del porto di Livorno, c’erano ben 6 navi militari americane, impegnate in un’operazione di sbarco di armi: vicino Livorno infatti c’è la grande base USA di Camp Derby, dove sono ancora oggi stoccate migliaia di armi e mezzi militari americani. Quelle navi erano appena tornate dalla guerra del golfo, conclusasi un mese prima. (la prima guerra del golfo s’è svolta dal gennaio al marzo del 1991).Ma quell’operazione non doveva avvenire di notte. E poi gli americani avevano annunciato la presenza di sole tre navi, mentre oggi sappiamo che ce n’erano sei!
SETTIMO. Nei momenti dell’incendio molti testimoni videro un elicottero volteggiare sulla zona prima di scomparire. L’elicottero non era né dei soccorsi né delle forze armate italiane. A chi apparteneva? Dopo quindici anni ancora non lo sappiamo, e gli americani della base di Camp Derby non hanno mai permesso agli italiani di indagare sugli elicotteri parcheggiati nella base.
OTTAVO. I radar delle navi di soccorso andavano in tilt appena si avvicinavano alla zona della collisione. Perché?
NONO. Un’altra nave, descritta dall’equipaggio della petroliera come un peschereccio bianco, venne vista attraversare rapidamente le acque del porto quella sera. Ma che ci faceva un peschereccio di notte, in mezzo a tante navi militari?
DECIMO. Con certezza si sa che nell’aprile del 1991 era ancorato nel porto di Livorno il peschereccio “21Ocktobar II”, una nave regalata dallo stato Italiano alla Somalia per aiutare (nel quadro della cooperazione) questo paese africano fornendogli mezzi.
Ufficialmente la nave era in riparazione, ma il pomeriggio del 10 aprile fu vista una bettolina rifornire i suoi serbatoi. Perché? Che fosse proprio la “21 Octobar II” la nave bianca vista correre nel mare quella sera?
UNDICESIMO. La nave 21Ocktobar II, sarà oggetto due anni dopo di un’ indagine giornalistica da parte di Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, uccisa poi nel marzo del 1994 a Mogadiscio, capitale della Somalia, assieme al cineoperatore Miran Hrovatin. Una delle ipotesi più accreditate , per non dire certe, è che Ilaria Alpi sia stata uccisa perché aveva scoperto con la sua indagine giornalistica qualcosa che NON DOVEVA SAPERE: e cioè un traffico d’armi fra Somalia ed Italia che avveniva utilizzando le navi della cooperazione, ufficialmente dei pescherecci. Fra questi pescherecci c’era pure la 21OcktobarII.

Ilaria Alpi sarebbe stata uccisa perché con la sua indagine aveva scoperto qualcosa di enorme, in cui c’entravano i militari americani, lo stato italiano, e i 140 morti del Moby Prince? Naturalmente, essendo il processo aperto, queste sono “soltanto” ipotesi.I punti che ho elencato sono però dati di fatto.


Moby Prince - "Il porto delle nebbie"

Playlist Completa: http://www.youtube.com/user/InfoTricks?feature=mhum#p/c/2D6F8EDE07D1F4CF